mercoledì 20 maggio 2009

Articoli: Potete fidarvi delle donne


Quando lavoravo nell'azienda precedente, ci fu un momento di crisi molto seria. Fui convocata dal mio capo, mi disse che contava molto su di me, perché ero tra gli elementi migliori. Io uscii tutta orgogliosa di questo atto di stima e di fiducia, e mi impegnai in modo straordinario per diversi mesi. Quando si videro i primi segnali positivi, mi espresse tutta la sua soddisfazione per il mio lavoro: ero stata bravissima. E io usci dalla sua stanza felice. Non ebbi altro”.

Ecco: un'azienda in crisi e la reazione di una sua dirigente. L'interesse dell'azienda prima di tutto. Normale? Ad un uomo non s1arebbe mai successo. Un uomo avrebbe contrattato prima e preteso dopo. Certo, si potrebbe liquidare l'episodio facilmente e con un po' di superiorità: la solita incapacità di chiedere delle donne. Che è verissima, problematica, e le donne stesse ritengono che questo sia uno degli 'errori' più importanti nella loro vita di lavoro.
Eppure, molte volte ciò che si chiama errore è un pregio inestimabile, non valorizzato, anzi, spesso strumentalizzato. Non siamo solo ingenue e incapaci se non puntiamo tutto sui soldi. Dentro questo episodio si possono leggere anche cose ben diverse, e su cui riflettere, soprattutto in tempi di crisi gravissima, che non dovrebbe consentire di trascurare nulla.
Bisogna partire dalla base. Innanzitutto la scelta di fare un lavoro qualificato e impegnativo non è un obbligo sociale per una donna. Certo, nella maggioranza dei casi lavorare si deve, ma la decisione di cercare un percorso professionale di alto profilo nasce da una motivazione personale, da quello che si vuole essere. Per un uomo, invece, il modello sociale si fonda imprescindibilmente sul lavoro, sul successo nel lavoro. Si potrebbe dire che mentre un uomo deve, una donna sceglie di fare carriera.
Basterebbe questo per dire che se è arrivata lì ha già superato condizionamenti sociali e filtri aziendali che un uomo non conosce nemmeno. E quindi è due volte più preparata e due volte più motivata. Ma diversa è anche l'aspettativa di queste done verso il lavoro, la loro concezione del lavoro.
Il lavoro a cui ambiscono, il lavoro 'ideale' che perseguono comporta benefici che vanno ben oltre il guadagno economico, oltre la remunerazione in denaro. Ciò che queste donne vogliono dal lavoro riguarda soprattutto le possibilità di autorealizzazione. Il lavoro assume un valore intrinseco, un ruolo primario, orientato alla costruzione di sé, della propria identità.
Il lavoro così inteso esprime valori diversi da quelli dominanti -concentrati su soldi e carriera- e si apre a dimensioni ampie. Coglie e intende come valore anche la dimensione sociale del lavoro. E include una dimensione etica individuale, che si manifesta con sorprendente frequenza nel modo di intendere la propria attività lavorativa. Anche per questi aspetti positivi il denaro non sta ai primi posti dei riconoscimenti attesi.

Più che la retribuzione, oggi per me è molto importante sentire che sto realizzando qualcosa per cui ‘sono nata’”.
“Non ho mai badato ai soldi. La passione, la possibilità di misurarmi con cose nuove, di apprendere, di creare, di innovare, la stima delle persone intorno e dei collaboratori, i risultati concreti mi erano sufficienti”.
“E’ importante per tutti trovare un 'senso' nel proprio lavoro per sentirsi in una piacevole situazione di espansione di sé invece che in una dolorosa circostanza inevitabile”.
“Il mio lavoro mi ha permesso di ottenere i riconoscimenti che contano per me e che consistono in quello che Maslow ha chiamato 'autorealizzazione'. In altre parole sono soprattutto io a essere contenta del mio lavoro”.

“Sentire che col mio lavoro cresce l’azienda e crescono le persone”.
“Un lavoro in cui sento la mia responsabilità verso l’azienda”.
“Un lavoro in cui sento di essere al servizio di un grande progetto”.
“Poter usare la mia intelligenza, energia, creatività per il benessere e il progresso sociale”.
“Una condizione di libertà e di armonia in cui il lavoro è l’ambito sociale in cui esprimerci maggiormente e contribuire al bene comune”.

E forse entrano in gioco anche altre dinamiche, legate a certe consuetudini di ruolo. Come il prendersi cura della famiglia: un lavoro gratuito che viene ripagato dalle relazioni affettive. Come se amore e soldi facessero 100, si potrebbe dire, e dunque dove c'è tanto amore ci possono essere pochi soldi1 . Così lo stesso meccanismo si attiva quando c'è amore per il proprio lavoro, che non motiva a cercare altro. Dove c'è soddisfazione per il lavoro, ci può essere una remunerazione economica insoddisfacente.

“Mi sono appassionata al lavoro e mi ci sono buttata anima e corpo”.
“Sono presa da innamoramento e passione per le cose che faccio”.
“E' stato amore a prima vista ed ho capito che avrei continuato quel lavoro”.
“Ci si può innamorare, della Ferrovia. Ed è quello che è successo a me; i processi, il sistema, la tecnologia, le persone molto competenti, appassionate…”.
“In genere lavoro con passione”.
“Può esserci un innamoramento metaforico per il proprio lavoro. Io amo il mio lavoro”.

In tutto questo c'è qualcosa di molto importante per le aziende (che non è non il bieco pensiero di strumentalizzare questi orientamenti per non remunerare ciò che è giusto: le donne hanno dei valori, non sono sciocche). Qualcosa di non immediatamente evidente.
Scegliere il proprio lavoro, farne uno strumento di realizzazione di sé, amarlo molto, significa che nel rapporto di queste donne con il loro lavoro c'è sempre una presenza di eros. Stiamo parlando, ovviamente, di eros come forza vitale e creativa, come passione, come piacere. Questo porta ad uno specifico femminile negli atteggiamenti verso l'azienda. Dove c'è eros c'è gratuità, c'è dono.
E questo modo di essere verso il loro lavoro coinvolge anche l'azienda, con cui le donne stabiliscono una diversa relazionalità, basata su una forte lealtà. Ecco anche un altro fondamento della dimensione etica così spesso presente nelle donne.
Vengono in mente, a questo proposito, molti episodi arrivati alla cronaca in tempi recenti, con le gravi crisi finanziarie di grandi e grandissime società. Al cui vertice, spesso, abbiamo visto top manager arricchitisi non solo con benefici economici smodati a fronte di danni smodati, ma facendo i propri interessi attraverso il loro ruolo, e a volte proprio rubando e truffando. Ma non abbiamo mai sentito che tra i protagonisti di atti simili ci fossero delle donne.
Certo, sono poche in posizioni di grande potere, ma intanto quelle poche non sono così. E comunque ci sono invece molte donne in posti con meno visibilità ma che sono posizioni chiave, quelle che fanno veramente funzionare l'azienda. Lì ne troviamo molte. E sono preziose proprio per l'attenzione agli interessi aziendali: una forma di investimento sull'azienda.
D'altra parte, senza nemmeno arrivare ai casi delinquenziali, chiunque conosca la vita aziendale sa che i manager investono una buona quota del loro tempo non a sviluppare il lavoro per l'azienda, ma a lavorare direttamente per la propria carriera e il proprio guadagno. Intessendo relazioni, facendo manovre, pensando a cosa ci guadagnano da ogni decisione possibile. Le donne pensano a lavorare, a svolgere il compito, a realizzare l'obiettivo nel migliore dei modi. Di fronte ad un problema, un uomo pensa a chi delegarlo e a come può trarne vantaggio, una donna dice 'ci penso io', e si impegna duramente per risolvere il problema.
Possiamo fermarci qui. Ce n'è abbastanza per dire una cosa che vale sempre, ma tanto più in tempi di crisi. Se dovete assumere un persona, assegnare un ruolo di responsabilità, affidare un progetto, a parità di condizioni puntate su una donna. Potete fidarvi delle donne. Potete fidarvi di più.

Luisa Pogliana
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I brani riportati sono presi da una mia recente ricerca con donne manager.

(Pubblicato su Direzione del personale, n° 1, marzo 2009)

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