giovedì 29 aprile 2010

Un incontro sul libro a Borgomanero con Soroptimist, Aidda, ABCD

Giovedì 6 maggio si terrà a Borgomanero un incontro sul libro, voluto da Soroptimist Internazionale d'Italia, Associazione ABCD Dialogandonne, AIDDA Piemonte-Valle d'Aosta.
Interverranno per le tre associazioni Mariella Comazzi, Piera Giachetti e Isabella Landi.
Sono molto contenta e grata di questa nuova e interessante opportunità.
L'appuntamento è alle 18.30 alla Fondazione Marrazza, in via Marrazza a Borgomanero.

giovedì 22 aprile 2010

"Donne senza guscio" è entrato tra i cinque finalisti del premio Biella Letteratura e Industria

Bella notizia, questa comunicazione ufficiale inviata all'editore da Pier Francesco Gasparetto, Presidente della giuria del Premio Biella Letteratura e Industria.

Da: Pier Francesco Gasparetto pfgasparetto@alice.it
Inviato:
martedì 20 aprile 2010 13.45
A:
Guerini e Associati

Oggetto:
Premio Biella

Buongiorno,

ho il piacere di comunicarvi che la giuria del Premio Biella ha incluso nella cinquina finalista l'opera "Donne senza guscio" di Luisa Pogliana. Comunicazione ufficiale verrà data alla Fiera del libro di Torino giovedì 13 maggio, h. 11, Sala Avorio.

Con vive congratulazioni e cordiali saluti

Pier Francesco Gasparetto

Stando a quanto dice la stampa, i candidati erano 49, tra cui il grande Yunus. Come si fa a vincere con un premio Nobel in campo? Ma proprio per questo mi sembra già un bellissimo risultato. Per me, per tutte le donne che hanno partecipato al libro, per tutte quelle che si sono ritrovate nei suoi temi e lo hanno sostenuto.

Un seminario formativo sui sensi di colpa delle mamme: Un'iniziativa con Working Mothers Italy

Working Mothers Italy
propone
Mamme lavoratrici: tra organizzazione aziendale e sensi di colpa
Workshop formativo tenuto da Luisa Pogliana

Background e obiettivi
L'associazione Working Mothers Italy ha recentemente proposto alle sue associate un programma di attività e workshop formativi.
Uno degli strumenti proposti a sostegno della maternità e dello sviluppo professionale è il workshop “Mamme lavoratrici: tra organizzazione aziendale e sensi di colpa” organizzato in collaborazione con Luisa Pogliana a valle della sua esperienza pluriennale e ricerche svolte in merito.
Il workshop si propone di sostenere ed accompagnare le mamme nella scelta di perseguire una realizzazione personale sia nel lavoro che nella maternità.
Una realizzazione sempre difficile da attuare, ma ancor più quando si è scelto un percorso lavorativo molto impegnativo in azienda.
Da un lato, sappiamo bene che l'attuale cultura aziendale dominante, di stampo maschile, penalizza la mamma, sia per un supposto calo di rendimento permanente, sia con un'organizzazione del lavoro fondata su regole a volte inutilmente costrittive.
Dall'altro lato, uno dei nodi comuni alle mamme lavoratrici sono i sensi di colpa rispetto ai loro bambini e bambine. Ci si sente sempre di sacrificare qualcosa: tempo, attenzioni, vicinanza.
Tutto questo è inevitabile?
E' possibile una diversa organizzazione del lavoro? E' possibile scegliere tutto, non sacrificare pezzi di sé?
E, soprattutto, i sensi di colpa perché ci si sente mamme carenti, sono così fondati?
Come vivono veramente la situazione questi figli e figlie?
E' possibile che, insieme ai problemi, possano trovare nel modo di essere delle loro mamme anche qualche ricchezza in più?
Aprire ad una diversa visione di questi problemi, dare strumenti di comprensione per un miglior modo di affrontarli è lo scopo di questo workshop.
Approccio metodologico e contenuti
L'approccio fondamentale si basa sul fatto che le partecipanti possano partire da sé e dai propri problemi, per confrontarsi tra donne che condividono la loro stessa situazione.
In questo modo è possibile prendere coscienza di quanto i problemi siano comuni e non individuali, trovare un sostegno al valore delle proprie scelte, sviluppare una riflessione sia su di sé che sul contesto aziendale, e sulle pratiche possibili verso i problemi esaminati.
E' possibile arrivare ad una lettura generale e teorica dei problemi in esame, non in modo astratto ma costruita sulle esperienze concrete.
L'incontro si articolerà in due tappe.
La fase iniziale consisterà in una discussione di gruppo guidata dalla responsabile del workshop, (circa un'ora e mezza) sulle seguenti aree:
i problemi incontrati in azienda al momento della maternità, sia di tipo valutativo che organizzativo; di cosa hanno sentito più bisogno, cosa ritengono praticabile in termini di organizzazione aziendale per non penalizzare il percorso di carriera o le necessità della maternità;
qualità e quantità del tempo: organizzazione familiare; come compensano la scarsità di tempo che il lavoro lascia rispetto ai figli, come valorizzano il tempo di vicinanza;
il rapporto con i figli/le figlie: quali gli elementi di preoccupazione verso di loro, verso la capacità di continuare ad investire bene sia su di loro che sul lavoro; i sensi di colpa: come si manifestano, su cosa si fondano, come si reagisce al senso di colpa;
ruolo del padre;
trasferimento di aspetti positivi tra questi due aspetti della vita.
Al termine della discussione, verranno focalizzati dalla responsabile gli aspetti-chiave emersi, i punti ricorrenti sia nella tipologia di problemi che nell'eventuale individuazione di cause e soluzioni (durata di circa mezz'ora).
Questo sarà la base su cui si svolgerà -dopo un intervallo- la seconda parte del workshop.
La seconda fase di lavoro, per una per una lettura generale e teorica dei problemi esaminati, utilizzerà sia quanto emerso dal lavoro iniziale, sia i risultati di due ricerche recentemente condotte: la ricerca specifica sui sensi di colpa delle mamme e la parte relativa alla maternità della ricerca alla base del libro “Donne senza guscio. Percorsi femminili in azienda”.

I temi saranno focalizzati su due aree:
La cultura aziendale e l'organizzazione del lavoro: capire il modello maschile, le reazioni che suscita in noi, la colpevolizzazione rispetto all'azienda; vedere proposte di soluzioni di cui eventualmente provare ad appropriarsi.
I sensi di colpa verso i figli: cambiare prospettiva mettendo al centro i vissuti reali di bambini e bambine, ascoltando cosa dicono della professione delle mamme. Vedere così se e quanto i sensi di colpa delle mamme possano essere andati oltre il disagio reale dei figli, condizionati dalla pressione di modelli sociali.
Tra queste pressioni, un altro tipo di colpevolizzazione: quella di lavorare per piacere, per se stesse e la propria realizzazione, e non solo per dovere o necessità. Mentre questa autorealizzazione può essere in realtà una ricchezza che si comunica ai figli.
Alla fine la riflessione verrà consolidata con una discussione conclusiva su cosa abbiamo imparato e cosa ci ha dato questo incontro.

Informazioni organizzative
il workshop sarà tenuto da Luisa Pogliana
n° partecipanti: minimo 12, massimo 16- durata: 4 ore - costo: 40 € (a copertura costi)
location e date: da concordare con le partecipanti.
Per info e prenotazioni: mammealavoro@gmail.com - www.workingmothersitaly.com

Incontro a Milano con ABCD: un bellissimo contributo di Barbara Mapelli

Valeva la pena di esserci, martedì 20 all'incontro sul libro organizzato da Isabella Landi per ABCD, anche solo per ascoltare l'intervento di Barbara Mapelli. Incontrare questa donna è stato un bel guadagno. Metto qui sotto il suo intervento, che consiglio molto di leggere.

LINGUAGGIO
E’ scorrevole, semplice e discorsivo, piacevole, ironico, si sofferma spesso sull’etimologia/significato delle parole che usiamo abitualmente e ci aiuta a rifletterci, senza accettarle acriticamente. E’ discorsivo, sembra voler avviare una conversazione con la lettrice/lettore
E appunto mi soffermo, come prima attenzione, proprio sul linguaggio perché del testo rivela le intenzioni e anche la struttura portante, su cui il libro è costruito. Le interviste alle donne, che organizzano i diversi contenuti, divengono nel testo un racconto, più racconti e storie che si intrecciano, costruendo una trama comune, un discorso più generale di somiglianze, intrecci, connessioni da cui emergono contenuti condivisi. Una presenza collettiva in cui le protagoniste e l’autrice stessa sono narratrici e interpreti allo stesso tempo.
NARRAZIONE
Il racconto di queste donne, la composizione e il commento di Luisa divengono la base e la possibilità di riconoscimento per le altre, il riferimento per riflettere sulla propria esperienza, per pensarla come una storia, narrabile quindi, e di valore, per sé e per le altre. In questo modo si contribuisce a creare una tradizione, un discorso sul lavoro che non si avvale più soltanto di parole, immagini, narrazioni maschili.
Quello scelto da Luisa è un percorso che si inserisce in una cultura che mi appare di matrice tutta femminile. Se infatti il metodo delle interviste caratterizza molte ricerche, anche maschili naturalmente, in questo caso si privilegia la dimensione della relazione tra donne, poiché il testo mette in dialogo le intervistate tra loro e con l’autrice, che si misura con le parole delle donne e, a partire da queste, inaugura e stabilisce un dialogo anche con chi legge. E allora la molteplicità dei punti di vista diviene un valore, dichiarato fin dalla premessa in cui si dice che l’oggetto di ricerca non è ciò che c’è (altrimenti detto la verità), ma ciò che si vede e in questo modo offre dunque spazio di parola e interpretazione anche alla lettrice, non più posta in una condizione passiva e acritica, come avviene nei testi dell’ipse dixit maschile (e anche in alcuni femminili).
Si prospetta dunque una possibilità appassionante di lettura ed è quella che ho adottato.
TRADIMENTO
L’ho adottata consentendomi quell’attitudine che per me significa che un libro mi piace e mi interessa: allora tradisco l’autrice.
Vado cioè al di là delle sue intenzioni – ma in questo caso probabilmente corrispondo alle sue intenzioni – lascio che il libro generi in me altre storie e altre direzioni, altri pensieri ed emozioni.
D’altronde io sono un’educatrice e interpreto dunque tutto il testo in questa prospettiva, anche se mi sembra che l’autrice stessa la condivida, o forse, e addirittura, mi chiedo, non è vero che ogni libro, ogni relazione, diretta o mediata attraverso la parola scritta, è, se vuole, educativa? E se non vuole non è neutra ma diseducativa?
Un libro che diviene importante per me è allora quello che sa condurmi lontano da sè. (D’altronde tra le belle etimologie che ci offre Luisa c’è anche quella di tradimento…)
PAROLE
Etimologie, appunto, grande attenzione alle parole. C’è bisogno di parole di donne sul lavoro (e non solo), per non continuare ad usare il linguaggio altrui – e il linguaggio è ciò che dà forma al mondo, lo interpreta e trasforma questa interpretazione in norma - per piegarlo, risignificarlo sui sensi, bisogni, usi delle donne. Per dimostrare, innanzitutto a sé stesse per poi dirlo alle altre, che non c’è una sola concezione di lavoro e di carriera e che sono possibili invece molti percorsi. (pag.45)
PROGETTO
Mi è parsa una parola importante nel testo e lo percorre in molte parti: i modelli sociali di femminile e maschile che condizionano le scelte, anche quelle apparentemente più libere e condizionano ambedue i sessi (esempio della carriera, se una donna può fare carriera, un uomo deve) e ho verificato nelle mie ricerche con adolescenti ancora a scuola come questi modelli li/le vincolino nell’elaborazione della scelta per il futuro. I modelli di genere poi nel contemporaneo sono complessi, contraddittori, spesso opposti, credo sia impossibile interpretarli – per non subirli passivamente - in solitudine, senza una guida critica. La scuola, le altre agenzie formative dovrebbero offrire come prima forma di educazione di genere gli strumenti per interpretare quel che il contemporaneo propone per divenire e crescere donne e uomini (e comprendere è il primo passaggio per mutare).
Proseguendo sulla parola progetto. Mi colpisce nel testo quando si parla di carenza progettuale delle donne in confronto agli uomini e l’autrice la definisce in realtà un punto a favore (pag.20). Non posso che condividere e ricordo di aver scritto qualcosa di molto vicino a proposito delle adolescenti. La norma sociale impone agli uomini (e non alle donne,come si diceva prima) non solo di dover lavorare, ma di dover fare carriera, questo limita la loro capacità progettuale o almeno ne riduce l’ampiezza, aumenta le ansie che rendono meno creativi, flessibili, disponibili. E questo già verificavo tra i giovani maschi adolescenti a scuola. Mentre le ragazze che intervistavo avevano progetti meno delineati, più vaghi, spesso tra loro contraddittori e io avevo considerato che questo avrebbe potuto renderle più libere, più capaci di ragionare su un ampio spettro di possibilità, comprensive anche del fatto che la biografia di una persona non si costruisce solo su un progetto di lavoro, ma, come scrive Luisa, mentre una donna progetta progetta anche per la sua famiglia. Ma qui si apre un altro grande capitolo, sempre complesso, talvolta doloroso, che per il momento tralascio.
Questo libro lo penserei dunque molto utile, almeno in alcune sue parti, per un lavoro di orientamento fin dalle scuole.
AMBIVALENZA
Quando parlavo con le studentesse delle scuole i loro progetti per il futuro potevano definirsi ambivalenti, ci si immaginava spesso tra un aereo e l’altro, impegnate in molte riunioni, come manager di successo, e nel contempo felici nella propria casa, nella quotidianità regolare tra colazioni, buoni mariti (al buon marito sono dedicate alcune pagine nel libro, pp.82-3) e bimbi a scuola.
Tratti di ambivalenza a loro volta di contenuto ambiguo: da una parte la pericolosità di questi progetti che possono indurre sogni di onnipotenza e indicano poca conoscenza della realtà con i suoi vicoli e difficoltà (ma a scuola non si fa orientamento di genere, la realtà del contemporaneo, la sua conoscenza sessuata non fa parte dei programmi), ma al contempo e d’altra parte l’elaborazione di una competenza, soprattutto femminile, a vivere il tempo moltiplicandolo, rendendolo plurale (la frase attribuita a Madame de Maintenon, favorita e poi moglie morganatica del Re Sole: “Il re si prende tutto il mio tempo. Quello che resta lo dedico a Saint Cyr, a cui vorrei donarlo tutto”. Il resto del tempo è la sua risorsa di senso, la sua capacità di sottrarsi alle norme che regolano il tempo, alla sua economicità, all’ansia che sia sempre e visibilmente produttivo, in questo consiste l’eccedenza dell’esperienza femminile, legata alla pluralità continuamente ripercorsa, inventata, composta, dei propri ambiti esistenziali).
Ma l’ambivalenza femminile può divenire ed essere una grande risorsa, la capacità di stare in ambiti diversi allo stesso tempo, ma anche un autolimite (pensare alle difficoltà innanzitutto con sentimento di inadeguatezza personale, sindrome dell’impostore, pag.149) e l’autrice ne parla a lungo. Trasformarla soprattutto in risorsa è uno degli obiettivi del volume, come modalità femminile di apprendere a stare e vivere nella complessità, adottando e sviluppando la competenza di continui aggiustamenti, cambi di rotta, le mille microsoluzioni (pag.185).
GENERAZIONI
E a proposito di obiettivi, tra i molti leggo quello che più mi interessa, lo scambio di esperienze tra generazioni. C’è un bella frase nel libro, che trascrivo, quando si riesce a mettere in circolo l’esperienza, quando si riesce a condividere gli orientamenti, quello che si è riuscite a fare e come si è riuscite, il nostro orizzonte si amplia. Quello che facciamo acquista un senso non solo personale. Il proprio modo di agire non è più solo un’affermazione di capacità individuale: diventa una possibilità anche per le altre .(pag.173)
Appunto, così, insieme, si può cominciare a mutare, sé e il contesto.
L’autrice racconta, o fa parlare, normali vite di donne, adottando la metodologia che il movimento delle donne ha inventato, il partire da sé, dalla propria storia e l’accostarsi di molte storie diviene una coralità condivisa, un sapere, più saperi del lavoro e della vita. Costruisce il sapere delle donne, nel lavoro ma non soltanto, poichè sappiamo che non vi è separatezza nelle biografie delle donne, anzi ogni separatezza viene respinta e quindi questi saperi divengono saperi biografici, con cui si compone la vita di ognuna.
Luisa ha lavorato per tutta la vita nell’ambito aziendale. Da un po’ di tempo ha una nuova vita e di essa dedica una parte a questo lavoro, lo scrivere libri, sulle e con le donne.
Probabilmente abbiamo la stessa età e probabilmente, se pure in ambiti diversi, le stesse intenzioni, o almeno simili. Costruire trame di storie, reti di racconti, un sapere, dei saperi della vita e del mondo che si avvalgano delle esperienze femminili. Per tramandarli tra donne, tra generazioni, non come contenuti già elaborati solo da acquisire, un nuovo logos – la parola che si fa norma - questa volta al femminile, ma piuttosto come mythos (Luisa che ama le etimologie sa che logos e mythos sono le due forme greche, con diverso significato, di parola), racconto, scambio di esperienze, appunto, che partono dal sé individuale e collettivo di una generazione di donne per avvicinarsi ad altre, con altre vite ed esperienze, anche altri problemi. Perché sui vari temi si scambino parole di donne e poi, tra generazioni, ci si tradisca, si vada altrove, ma rinforzate, rese più sicure, più tranquille, anche nel proprio oltre, per il fatto che si sa che intorno, alle spalle, ci sono, e ci sono stati, progetti, proposte, vite e percorsi di donne, da cui apprendere per trasformare e continuare, così, la narrazione.
Barbara Mapelli

martedì 20 aprile 2010

Maternità in azienda: trasferimento di capacità

Serena Nobili mi ha scritto per segnalarmi un'iniziativa:
"Il CerVello di mamma e papà" ha come scopo una riflessione sull'importanza dell'esperienza genitoriale nel mondo del lavoro. Vogliamo sottolineare come l'esperienza genitoriale sia una ricchezza e non un impedimento. Il divenire genitori ci fa acquisire skills utili anche nel mondo del lavoro. http://genitoricrescono.com/il-cervello-di-mamma-e-papa/
L'8 maggio, festa della mamma, invitiamo tutti ad una azione collettiva, un gesto simbolico: inviamo un Curriculum Vitae ad una o più aziende, in cui sottolineamo le qualità acquisite grazie alla nostra esperienza di genitori. http://genitoricrescono.com/8maggio/
Come contributo ho inviato per il loro sito un capitoletto estratto dal libro Donne senza guscio, dove si parla proprio di questo, e che riporto qui di seguito.

Vite intere, sistemi complessi
“Non sono in grado di dire dove finisce il lavoro e dove inizia il resto. Ho pensato per tanti anni che fossero cose diverse, ma adesso ho capito che sono la stessa cosa perché io sono sempre la stessa e che il trucco è travasare continuamente energie e ricariche da un contesto all’altro in una sorta di alimentazione continua. Nemmeno quando porto a spasso il cane in campagna stacco perché i pensieri corrono e mi vengono idee, faccio connessioni, rivedo ricordi. Al lavoro viceversa prendo fiato e mi rilasso pensando alla mia pancia che si sta ingrossando”.
“In questi giorni sto provando con orgoglio l’essere donna. Nessun uomo potrà vivere l’esperienza che sto provando con tutti i vantaggi e svantaggi che comporterà lavorativamente. Nessun uomo potrà fare il training che farò io. Nessun uomo conosce l’ottimismo che provo e che mi aiuta a lavorare meglio”.
“Io ho avuto due figli in 17 mesi, e non mi sono mai sentita in colpa, anzi, ho sempre sentito la maternità come valore in più anche in azienda”.
"La svolta è arrivata quando è nato mio figlio, perché ho capito di essere cresciuta. Da quel momento mi sono assunta responsabilità crescenti, sia nella mia vita personale che in quella professionale”.
“Molte di noi sbagliano sui sensi di colpa. Ce ne facciamo più di quanto sia giusto”.
“Credo che un figlio possa avere di più da una donna lavorativamente realizzata”.
Un'ambizione complessa, una realizzazione di sé non unilineare, desideri diversi che si vogliono tenere insieme. Le donne non si accontentano di poco. Non si può dire “dove finisce il lavoro e dove inizia il resto”. Passione, anche erotismo, creatività, gioco, orientamento al risultato. E se per la donna raggiungere risultati nel lavoro è un modo per realizzarsi, la realizzazione sta anche altrove: l'amore, i figli, altre attività che piace fare.
Ma appunto, “non si sa dove finisce”. Non ci sono, in realtà, confini. Come è detto benissimo in questi brani, i diversi pezzi della vita sono in realtà una unica vita. Le donne che raccontano sanno che, in realtà, si può essere ambiziose su tutto: se si alza l'ambizione sul lavoro non necessariamente si abbassa quella sulla famiglia. Queste donne si auto-autorizzano a pensare che è possibile vivere contemporaneamente più vite.
Anzi, pensano che in ciò ci sia un arricchimento: ciò che di positivo si impara e si matura in ognuna di queste esperienze si trasferisce anche all'altra, perché è sempre la stessa persona che vive tutto. La sua vita può essere guardata a fette, ma per chi la vive è una. E le persone sono sempre individui interi. In-dividuo, che non si può dividere.
“Io non credo alla capacità di disgiungere l’aspetto privato da quello aziendale: uomini e donne appagati nella vita privata sono anche bravi manager e vice-versa”.
“Dobbiamo occuparci della carriera o della realizzazione di sè? E’ pensabile una realizzazione sul lavoro di una persona a pezzettini, non intera? E chi lavorerà meglio?”.
“La professione è arrivata ad assorbire ogni angolo non solo della nostra vita ma anche della nostra anima e questo è un fattore bloccante dello sviluppo umano e sociale”.
“Mi è capitato di dire di no a questa schiavitù del tempo e la sensazione di libertà è stata notevole. Come se la vita fosse solo lavoro”.
“A volte non ho accettato alcuni compiti perché richiedevano tempi 'al maschile': riunioni fuori orario, disponibilità illimitata… Non ho mai perso una recita di Natale, non ho mai rinunciato a una riunione importante a scuola e non lo farò nemmeno in futuro. È un pregio anche saper riconoscere cosa è urgente da cosa non lo è. E sapere dire di no”.
“Far attenzione a tenere sempre nella giusta relazione i mezzi ed i fini; avere chiaro il proprio progetto di vita e non anteporre mai a questo il solo progetto di lavoro. Mantenere il presidio sulla propria vita e non farsi 'rubare' il proprio tempo”.
“Il modello manageriale e di vita che viene trasmesso è sempre lo stesso, quello maschile della dedizione assoluta al lavoro. Così le aziende si riempiono di giovani donne con una gran voglia di fare e di fare bene che però non hanno una vita privata, non riescono ad avere una vita sentimentale decente, salvo gli eventuali amori che nascono e si consumano per così dire 'sul campo', e si ritrovano alla soglia dei 40 che improvvisamente si accorgono che potrebbe essere troppo tardi per altri progetti di vita”.
Certo è che se nella vita si vede un unico percorso, un unico ambito di realizzazione, la carriera per esempio, questo percorso può diventare tanto definito che si resta legati sempre solo a quello. Di solito succede agli uomini, che così hanno anche un vantaggio implicito, per quanto riguarda il lavoro. Focalizzati su un'unica meta, è più facile avere sempre chiari gli obiettivi e cosa fare per raggiungerli: l 'ambizione giocata su un solo piano non pone di fronte a problemi complessi.
Ma potremmo dire che la vera ambizione è andare avanti il più possibile su tutti i percorsi della vita, che è possibile avere l'ambizione di realizzare la vita intera. Senza dover per forza realizzare tutto perfettamente.
Lo vediamo nelle storie di queste donne: portano avanti un progetto dove non c'è separazione e gerarchizzazione delle parti di sé. Il modo di concepire il lavoro rientra in un progetto di vita, il modo di concepire la carriera tiene conto di passaggi e velocità diverse, di rallentamenti, per seguire il flusso della vita. Con la capacità di riordinare continuamente le priorità, di interrogarsi sul senso di un modo di vivere e di lavorare. E' difficile realizzare tutto, ovviamente, ma le donne sembrano particolarmente attrezzate per questo.
E' interessante notare come queste concrete esperienze costituiscono un bell'esempio di ciò che si definisce con il termine sistema complesso. Un sistema può essere inteso come un tutto costituito dalla somma delle parti, come meccanismo fatto di ingranaggi ognuno con un ruolo preciso. Come territorio: se si è in un luogo, non si può essere in un altro. Come tempo segmentato in istanti, ognuno destinato ad essere 'riempito di attività'. Oppure -ed è questo lo sguardo della 'scienza della complessità'-, il sistema può essere inteso come insieme sinergico, vivente, in continua evoluzione adattandosi al contesto. Il comportamento più conveniente sta nella lettura della situazione. la soluzione al problema emerge nel momento in cui serve. Si può essere allo stesso tempo -con il pensiero e con l'azione (le tecnologie aiutano)- in luoghi diversi. Si possono fare allo stesso tempo più cose. La gestione del tempo non consiste nel riempire di attività ogni istante, ma nel cogliere il momento propizio per ogni diversa attività. Ogni soluzione non può che essere subottimale.
Non è facile (e da sole) trovare soluzioni di fronte all'esigenza di 'tenere insieme' tutta la propria vita, muovendosi dentro i vincoli aziendali e quellifamiliari, e anche restando se stesse. Ma queste donne considerano normali, e adottano spontaneamente, quei comportamenti che gli studiosi della complessità considerano i più efficaci.
Muovendosi su diversi piani si può scoprire di avere più capacità di quanto si pensi. Non esiste una dotazione fissa di risorse, da dividere tra i vari obiettivi: il desiderio, la volontà moltiplicano le risorse.
Le storie che raccontano di questo dividersi e moltiplicarsi, non parlano di rinunce. Certamente di grandi fatiche, grandi problemi, ma anche di gioie, piaceri, vitalità, soddisfazione. Non parlano di un aut aut inevitabile, ma di un et et possibile, di un accrescimento di sé rinunciando a rinunciare Anche sul lavoro. E infatti in queste storie quasi tutte affermano il valore del loro essere mamme non solo per la loro vita 'privata', ma come un arricchimento della persona che si porta anche nel lavoro.
"Come si diventa bravi manager? Vorrei partire da un punto di vista di cui non si parla, dall’esperienza di chi, come me, oltre a svolgere un ruolo manageriale, è anche mamma. Sì perché oggi, fare la mamma, presuppone qualità e doti del tutto simili a chi ha ruoli di responsabilità all’interno di un’organizzazione. Per organizzare le attività di un ragazzino bisogna possedere grandi abilità di pianificazione. Per far sì che il corso di basket non si sovrapponga con il catechismo che a non deve interferire né con il dentista né con il corso d’inglese... Perché nel quotidiano di una mamma nulla può andare storto, e gestire con successo un evento imprevisto fa parte della normalità. Chi è abituato a gestire tutte queste attività (soggette a un’elevatissima percentuale di imprevisti) ha sviluppato un talento per l’organizzazione e la pianificazione. E anche la capacità di decidere le priorità. Una mamma alle prese con le avversità del quotidiano ha imparato a dare il giusto valore alle cose. Se il figlio ha l’influenza basterà un po’ di antipiretico, se ha la polmonite qualche notte in ospedale è da mettere in preventivo. Così in ufficio, riconoscere le priorità e dar la precedenza alle urgenze diventa più naturale, i problemi vengono collocati nella giusta dimensione. Ed è questo che fa di un manager un bravo manager”.
“Noi, con i figli, siamo allenatissime a fronteggiare l'emergenza, e a trovare la soluzione valutandone correttamente la portata e le priorità. Pensa a quanti soldi spendono le aziende per mandarci a fare i corsi sul 'problem solving' e il 'decision taking'”.
“La settimana scorsa ero in India, e durante la riunione arriva sul blackberry il messaggio di mio marito: 'bambino febbre a 40, baby sitter ammalata, io lo porto a scuola'. Lo diffido, e comincio a cercare una soluzione. Devo trovare una persona, ma una che il bambino conosce. Alla fine ho mobilitato una mia vicina ora in pensione. Intanto ho continuato la riunione”.
“Mi vien da sorridere perché talvolta, nelle riunioni, porto esempi da 'buona gestione familiare' nel senso di indicare quali sono le priorità da affrontare legate allo sviluppo ed alla crescita. Come a casa, per esempio, non si compra il cellulare se non ci sono i soldi per le scarpe. Come se la gestione, almeno quella che ho in mente io, si riferisse ad un modello interno familiare, di 'buon senso comune' come suggerisce Bion, piuttosto che a quello delle 'grandi imprese'”
E' un apparente paradosso rispetto allo stereotipo secondo il quale la vita privata dovrebbe restare fuori dall'azienda. Dall'altra vita, dal fatto che le donne vivono in più mondi contemporaneamente, ognuno con necessità, problemi, richieste, scenari diversi, le donne importano nel loro lavoro un ventaglio più ampio di approcci e soluzioni, di capacità e maturità.
D'altra parte, anche sul versante familiare, molte storie indicano come nell'organizzazione della vita familiare entrano in gioco comportamenti manageriali. Essere multitasking, delegare le incombenze operative, stabilire carichi e ruoli, definire le priorità, fronteggiare l'imprevisto, trovare soluzioni per situazioni non standard. Sono anche i compiti manageriali che si svolgono in ufficio.
Le capacità, il saper fare maturato in parti diverse della propria vita si trasferiscono dall'una all'altra. Ma è un valore non riconosciuto dall'organizzazione. Anzi, si continua a scontrarsi, è stato detto da molte, con regole organizzative che costringono le donne a dimezzare la vita o a raddoppiare la fatica. Per questo, nei racconti di vita tra lavoro e famiglia, emerge con evidenza un aspetto nuovo.
Su questo terreno il conflitto di genere esce dall'annoso problema della divisione dei compiti con il marito, esce dalla relazione di coppia come eravamo abituate a vedere. E si sviluppa invece verso l'organizzazione aziendale. Perché è questa, più che l'organizzazione familiare, che fa diventare la maternità un problema per le donne impegnate nel proprio percorso lavorativo.
Il conflitto si sposta dunque verso l'azienda, le sue gabbie organizzative inutilmente costrittive, la sua cultura legata a un punto di vista maschile. Esce dal privato e si sposta nel pubblico.

mercoledì 14 aprile 2010

Un nuovo incontro a Milano: Associazione Amiche di ABCD

Una tavola rotonda è stata organizzata dall'Associazione Amiche di ABCD
Si terrà martedì 20 alle ore 18 a Milano presso Chiamamilano, Corsia dei Servi 11.
Partecipano Barbara Mapelli dell'Università Milano Bicocca, e Isabella Landi dell'Associazione.
Isabella si è spesa molto per organizzare questo incontro (e anche altri): la ringrazio molto per questa attenzione.

sabato 10 aprile 2010

Articoli: Ma che cos'è la femminilità in azienda?

Due copertine, di Economist e di Time, hanno recentemente messo il mostro in prima pagina. Il mostro sono le aziende renitenti a capire quanto vantaggio possono trarre dalla valorizzazione delle donne. Conterà il fatto che, per esempio, oggi le donne in America sono esattamente la metà della popolazione occupata? E che questo ha scardinato ogni idea tradizionale di ruoli di genere? Per capirne la portata si veda il recente utilissimo rapporto Schriver1.
Venendo a noi, all'Italia, da quanto tempo sentiamo dire che la differenza è un valore, che ciò che può sembrare un problema può essere invece un vantaggio per l'azienda? Giustamente, le donne fanno leva su questa motivazione -la nostra presenza migliora le aziende-a sostegno delle proprie richieste. Perché le aziende cambiano le loro politiche e la loro cultura non per senso etico e di equità, ma se capiscono che ne hanno un vantaggio.
Purtoppo però il diversity management non è affatto entrato a far parte della strategia delle aziende italiane.
Va detto che le best practices ci sono, e nemmeno poche, si dovrebbe semmai cercare il sostegno in questa direzione da parte delle associazioni imprenditoriali. Ma qui parliamo della cultura aziendale prevalente. Una cultura così resistente al problema che in una recente indagine presso donne manager di alto livello, si rileva un netto cambiamento di orientamento sugli strumenti necessari per cambiare. Se fino a pochi anni fa la maggioranza delle donne era fiduciosa di potersi affermare per merito e capacità, oggi prende spazio l'opinione di chi ritiene necessario forzare il blocco verso il vertice con le quote rose. Se la cultura non cambia, il cambiamento necessario deve avvenire per legge, come in Norvegia. O con scelte di un vertice che impone questa politica al management e all'HR. Come in certe multinazionali, tra le quali anche i due colossi bancari italiani.
Resta il fatto che da noi l'interpretazione corrente di diversity management è più o meno questa: esiste un management 'normale', rispetto al quale si definisce la 'differenza' di nuovi soggetti manageriali, le donne. Che portano uno scarto rispetto al modello. Negativo, si sottintende, perché se in questa società il modello di riferimento continua ad essere l'uomo e tutto ciò che è maschile, le donne sono inadeguate per definizione.
Data questa premessa, anche a fronte di reali esigenze espresse dal mercato del lavoro qualificato, la reazione non è la valorizzazione delle differenze, ma la normalizzazione. Ovvero adattare, accettare alcune componenti di diversità che possono essere un'aggiunta utile e innocua agli standard consolidati. Accettare un po' di femminilità, come una specie di cacio sui maccheroni. Per il resto, si continua a valutare in base al modello di ruolo affermatosi nelle aziende storicamente maschili. Come dire: sappiamo che siete diverse e non proprio adatte, ma vi insegniamo noi le regole, e se le rispettate vi lasciamo entrare nel gioco.
Ma qui è successo qualcosa. E' successo che è entrata nel gioco una generazione di donne non più ristrette ad un'élite, non più isolate e costrette quindi a giocare con le regole date, a comportarsi come uomini. Oggi queste donne, invece, portano consapevolmente nel lavoro la loro differenza di bisogni e di visione, mostrano che le regole non sono neutre e buone per tutti, e che non esiste un unico stile di management.
Queste pratiche comportano allora un cambiamento nel modo di intendere il management?
Direi di sì. E non mi limito qui ad esprimere una mia opinione. Mi baso sulle evidenze di un lavoro di ricerca che ho svolto recentemente con un gruppo di donne manager.2
Per cominciare, compare molto spesso una diversa concezione del potere: le donne cercano il 'potere di fare' piuttosto che il 'potere di dominare'. Propongono uno stile di guida, un modo di essere capo fondati sull'autorevolezza personale piuttosto che sull'autorità di ruolo. Difficilmente, nelle pratiche adottate da donne manager, si trova una scissione tra persona e ruolo.
Questa è una importante differenza. Le donne portano anche nel lavoro la loro interezza di persone: la realizzazione nel lavoro è per loro una scelta imprescindibile, ma non totalizzante. E pensano che ciò non solo sia giusto ma anche compatibile con il loro ruolo manageriale.
Ecco dunque una forte critica dei modelli organizzativi, soprattutto per quanto riguarda la gestione del tempo, sempre un fattore critico per le donne, dato che in generale continuano ad avere le maggiori responsabilità nella gestione familiare. Rispetto all'organizzazione del tempo
le donne hanno motivo di denunciare rigidità e ritualità che sono insensate anche per l'azienda. Penso soprattutto alla richiesta di una disponibilità e di una presenza fisica in ufficio illimitata, con conseguenti rigidità di orario, a prescindere dalle reali necessità e utilità, a prescindere da come quel tempo viene veramente impiegato: il cosiddetto face-time.
Le scelte organizzative, alla luce di una presenza femminile nel management, possono essere convenientemente riformulate: contro le carriere presenzialiste, un sistema premiante realmente meritocratico, fondato su lavorare e valutare per obiettivi. È così possibile una gestione flessibile della presenza in ufficio, quando e quanto è veramente necessaria, in funzione delle esigenze reali dell'azienda, ma anche tenendo conto di quelle della persona. Dunque non concessioni costose, ma una concentrazione dell'attenzione sui risultati.
A partire da questo, anche i collaboratori sono visti come persone a cui si dà attenzione, nella consapevolezza che se si sta meglio si lavora meglio. L'autorevolezza nei loro confronti si fonda non solo sulla razionalità e sull'autorità di ruolo, ma anche su leve affettive -come attenzione, coinvolgimento e riconoscimento- capaci di motivare le persone agli obiettivi.

Su questo punto specifico, però, vale la pena di fermarsi un momento. Perché la competenza emotiva, l'attenzione alle persone, la capacità di relazioni, sono indubbiamente una parte importante del bagaglio manageriale. E le donne hanno molto spesso queste attitudini, anche per portato storico, per l'esperienza secolare di agire nel mondo privato degli affetti e della cura.
Ma tutte queste capacità vengono spesso citate come la caratteristica femminile da valorizzare. Come se fosse solo questo ciò che le donne portano nel management, il solo motivo per prenderle in considerazione. Così in azienda si tende a confinarle in ruoli in cui, rispetto a competenze professionali, sembrano prevalere le relazioni tra persone (tipicamente, nelle Risorse Umane). Oppure in aree operative, dove il raggiungimento degli obiettivi dipende molto dalla gestione delle persone.
Insomma, sembra quasi configurarsi una nuova mistica della femminilità in veste professionale.
Mistica, perché così si finisce per lasciare le donne là dove sono sempre state, nella sfera degli affetti e delle relazioni. Se poi sono le donne a scegliere per sé questi ruoli perché se li sentono adatti, oppure li prendono al volo perché queste e non altre sono le possibilità aperte dall'azienda, va benissimo. Ma di mistiche diventate gabbie ne abbiamo abbastanza.
Credo, insomma, che occorra guardarsi dall'avallare una nuova retorica del femminile, una definizione di cosa è la femminilità in azienda fatta ancora dagli uomini. Perché questo significa un progetto di 'accoglimento' della diversità limitato solo agli aspetti e ai modi che possono essere integrati negli schemi aziendali già dati. Negando ogni azione tesa a cambiarli.
Ma la differenza femminile e il suo valore in azienda, il contributo femminile all'allargamento degli orizzonti manageriali va ben oltre tutto questo. E non può essere sintetizzato in un elenco di skill specificate (e limitate) con precisione.
La differenza femminile sta, piuttosto, in un atteggiamento complessivo, che si manifesta nella prevalenza della persona sul ruolo, dello schema personale sullo schema di ruolo. Le donne si rapportano al lavoro prima in base al proprio carattere e alla propria visione, e solo dopo si confrontano con norme e modelli, sempre sgomitando un po' per adattarli a sé.
Per gli uomini è normale adattarsi agli standard, non solo perché li fanno loro, ma anche perché costituiscono una difesa e una comodità. E' più facile dire 'si fa così' che essere se stessi lavorando.
Se ci si adegua a un modo di fare consolidato, nessuno potrà dirci che abbiamo sbagliato. Ma in questo modo si finisce per ingabbiarsi in modelli di management che tagliano fuori ogni capacità e ogni visione diversa.
Dalle donne vediamo emergere uno stile più personale, meno definito in senso organizzativo. Non un modello diverso ma altrettanto fissato in codici, potenziale nuova gabbia. Piuttosto, un metamodello.
La via femminile alla leadership forse sta semplicemente in questo: nell'essere se stesse, nel non modificare il proprio stile personale, nel non assumere atteggiamenti finti e forzati. Nel non costringersi dentro corazze inadatte ad un corpo diverso.
Dunque, invece di parlare di valorizzazione delle differenze in base a un'idea di femminilità aziendale codificata, che magari non è la nostra, si potrebbe cominciare a lasciarci libere di lavorare come vogliamo. Libere di essere equamente valutate e premiate -cose non così scontate- per quello che facciamo, per i risultati che portiamo.

Luisa Pogliana.
Per Direzione del Personale, numero sul Diversity Management. Aprile 2010