martedì 22 dicembre 2009

Intervista su Corriereinformazione e su Torinosette

Sul sito Corriereinformazione, Il giornale degli operatori economici, è stata pubblicata un'intervista su come è nato il libro, le sue ragioni, le sue evidenze. Ringrazio Marcella Sardo, che se ne è occupata, per il suo interesse.

Anche Torinosette, della Stampa, segnalando la presentazione del libro a Torino l'11 gennaio, ha fatto un commento al libro.

martedì 15 dicembre 2009

Recensione su Italia Oggi, Valore D. e Hamlet (L'impresa): una bella collaborazione con AIDP

Una recensione del libro è apparsa su Italia Oggi del 30 novembre, nella pagina riservata alle attività di AIDP (Associazione per la Direzione del Personale). Devo ringraziare molto questa associazione per l'apprezzamento che ha mostrato per il mio libro. Abbiamo cominciato con l'interessantissima discussione organizzata a Bologna per iniziativa di Isabella Covili: più uomini che donne, di cui moltissimi direttori del personale, che hanno mostrato interesse concreto per i temi posti e le possibili pratiche. Poi la segnalazione del libro fatta da Paolo Iacci su HR OnlLine, ora questa segnalazione su Italia Oggi, e soprattutto il bellissimo articolo di Pino Varchetta sul numero in uscita di Direzione del Personale, per il quale ringrazio anche Emanuela Salati che dirige la rivista. Anche in Hamlet, l'inserto di AIDP su L'Impresa, il professor Gianfranco Rebora ha segnalato il libro nello speciale dedicato alla leadership femminile, cosa di cui lo ringrazio.

La recensione di Italia Oggi è stata ripresa sul sito di Valore D.

sabato 12 dicembre 2009

Presentazione a Milano alla Casa della Cultura

Il 18 gennaio 2010 Donne senza Guscio è al centro di un incontro presso la Casa della Cultura di Milano, una iniziativa di cui ringrazio Renata Borgato. L'incontro è per me molto felice per le donne che hanno voluto partecipare: Lea Melandri, che è stata una delle mie figure di riferimento, Patrizia Di Pietro e Giovanna Galletti che, come Renata, hanno contribuito alla ricerca da cui è nato il libro. A Giovanna, poi, sono molto grata perché ha discusso con me alcuni aspetti importanti delle interviste, soprattutto dal punto di vista della soggettività espressa dalle donne intervistate nel loro percorso di lavoro.

Presentazione del libro a Torino presso il Circolo dei Lettori

Una presentazione e discussione del libro è stata organizzata dalla Consigliera di Parità della Provincia di Torino Laura Cima, che ringrazio molto per l'attenzione che ha dato a questo libro e ai suoi temi. In particolare sono felice della partecipazione di Anna De Ambrosis, una delle donne che ha contribuito alla ricerca da cui è nato questo libro. Ringrazio anche Vera Schiavazzi e Cristina Bracchi che hanno voluto partecipare a questo dibattito.
L'incontro si terrà l'11 gennaio 2010 presso il Circolo dei Lettori, via Bogino 9, Torino.

domenica 29 novembre 2009

Incontro sui temi di "Donne senza guscio" per le vincitrici del Premio StartCup della Provincia di Torino

Trascrivo il testo dell'invito ad un incontro sui temi di "Donne senza guscio", organizzato per le vincitrici del premio StartCup dalla Consigliera di Parità della Provincia di Torino, Laura Cima, che ringrazio molto per questa interessante occasione di discussione.

Incontriamoci su: “Donne e Innovazione” (versione pdf)

In qualità di promotrici del premio “Donne Innovazione”, da cinque edizioni inserito nella competizione START CUP TORINO PIEMONTE, abbiamo voluto creare un’occasione di riflessione e di approfondimento sui temi dell’impresa e della managerialità, dedicato a tutte le imprenditrici e ai team che hanno ricevuto il nostro riconoscimento, nonché ai team femminili premiati dallo START CUP TORINO PIEMONTE.

Lunedì 30 novembre dalle ore 10,30 alle 12,30 , Sala Marmi della Provincia di Torino
Palazzo Cisterna via Maria Vittoria 12 a - Torino

Sarà l’occasione per incontrarci e per avviare un confronto che vorremmo proporre a più ampio raggio, prossimamente, in un’iniziativa rivolta a tutte le donne che si trovino a confrontarsi con il tema dell’innovazione e della managerialità. Crediamo possa essere per tutte un’opportunità per capire le difficoltà e confrontaci sulle soluzioni ma anche per valorizzare le potenzialità che ciascuna crea con la sua storia professionale. L’incontro si avvarrà della prestigiosa partecipazione di Luisa Pogliana esperta di management e autrice del volume di recente pubblicazione “Donne senza guscio” che ci presenterà la sua esperienza offrendoci importanti elementi di confronto.

Le Consigliere di Parità della Provincia di Torino
Laura Cima e Ivana Melli

www.consiglieraparitatorino.it


domenica 8 novembre 2009

Una recensione di Giuseppe Varchetta per "Direzione del Personale"

Più che una recensione, un contributo importante di ragionamento sui temi proposti dal libro, viene da Pino Varchetta, psicologo molto noto soprattutto nell'ambito della formazione.
Ecco il suo articolo che uscirà sul prossimo numero di Direzione del Personale, rivista dell'AIDP.


Ormai molti anni fa, nel 1988, un filosofo italiano pubblica un libro Sguardo e destino con il quale sembra prendere congedo dalla filosofia mentre, all’opposto, conduce per mano il pensiero filosofico nel render conto alla cultura dei soggetti umani che il mondo si offre di per sé pieno di enigmi, che per essere colti, compresi, necessitano di un lasciarsi alle spalle il rigore passato. “Sguardo e destino”, appunto, che può essere accostato alla ricerca di Luisa Pogliana sui percorsi aziendali di un gruppo di trenta 'donne in carriera', manager tutte con rilevanti responsabilità nell’organizzazione di appartenenza e con l’obiettivo consapevole di cercare di restare donne.
Fin dal suo incipit l’autrice parla di uno sguardo (etnografico) che, al di là di quello dominante, lo sguardo maschile, può svelare “quello che altrimenti resta tacito e latente” (ivi pag. 8), mettendo in luce “i meccanismi di penalizzazione coperti da negazione e silenzio” (ibidem). Occorre una svolta epistemologica, uno sguardo femminile che offra alla ricerca psicosociologia sulla condizione della donna nell’organizzazione aziendale del nostro Paese, una prospettiva finalmente densamente vera, un’attesa thick description.
I temi e i problemi sottesi dalla ricerca della Pogliana sono drammaticamente reali e tristemente lievitati da una confusa ridda di eventi che negli ultimi mesi hanno, nel mondo mediatico, portato i temi del rapporto tra donna e potere all’attenzione dei più, in uno scempio e in un assalto caratterizzato da ansie persecutorie e da una manifestazione dell’autorità e della politica a dir poco depressive.
La cultura organizzativa italiana a partire dalla prima metà degli anni ’90 del secolo scorso è stata coinvolta dalla questione femminile giunta ad un secondo ordine di complessità. Le donne hanno sempre abitato l’Azienda, anche nel nostro Paese, ma, salvo rarissime eccezioni, ripetendo per lo più i ruoli ancillari di una esperienza familiare arcaica. Sono state le donne operaie, impiegate, segretarie, assistenti, venditrici, sepolte in ruoli predittivamente subalterni, popolando una sorta di etnia della esecutività rassegnata.
Si è poi, finalmente, presentata una discontinuità qualitativa, nutrita da una concomitanza di profondi cambiamenti culturali-strutturali della società italiana, condotta da donne diverse che accanto a proprie interne intenzionalità di autosviluppo generativo “dentro il lavoro organizzativo”, non rinunciano ad una visione diversa, da quella dominante maschile del lavoro e dell’organizzazione. Una sfida troppo complessa per l’asfittica cultura organizzativa italiana ancora oggi, soprattutto nel dominio aziendale, caratterizzata da una visione delle cose dettata dallo sguardo maschile.
Per quel gruppo di giovani donne diverse “l’attuazione di un proprio progetto comincia a volte proprio con un no, o con un si diverso da quello previsto” (ivi pag. 19).
L’autrice con profonda onestà afferma nelle prime pagine che “nel libro si parla di donne e di uomini, attribuendo loro certi atteggiamenti e comportamenti distintivi. E’ chiaro che gli uomini non sono tutti uguali, e nemmeno le donne. Perciò si fa riferimento al comportamento maschile e femminile prevalente. Anche le aziende non sono tutte uguali. Anzi, le caratteristiche e la cultura dell’azienda possono cambiare di molto i percorsi di cui parliamo. Tuttavia qui si fa riferimento alla cultura dominante, e a quegli elementi di questa cultura che nelle esperienze raccolte risultano comunque ricorrenti” (ivi pag. 11). Si può aggiungere che, chiuso il libro, dopo una fitta e attenta lettura, resta l’emozione e la cognizione di aver ascoltato un microcosmo – le trenta protagoniste intervistate – calato in un immaginario sulla condizione femminile nell’esperienza aziendale nel nostro Paese nutrito da annose esperienze per lo più dominate dal dolore e dalla non cura.
Il volume si articola in cinque parti: una riflessione sul lavoro, sulle soglie invisibili e soprattutto sul rapporto difficile delle donne col potere, sulla vita spericolata cui le donne con alte responsabilità aziendali sono costrette, sulle trappole dell’affettività nell’ambiente di lavoro, sugli aspetti intersoggettivi all’interno delle proprie personali ambiguità.
Ognuna di queste cinque parti si struttura come un ordito di scrittura densa, di cura e attenzione, nel quale si fondono e le testimonianze dirette delle manager intervistate e un libero, a tratti intimistico, a tratti orgogliosamente politico, conversare dell’autrice. Quello che emerge è un affresco problematico, per non dire pessimistico nel suo trasparente realismo: vince ancora nella cultura organizzativa del nostro paese un modello di dominio basato sulla gerarchizzazione sociale, nel quel gli uomini e la visione maschile dominano la realtà e con essa gli altri e in particolare le donne. Tale modello di dominio ha informato la visione del mondo dei più con modalità radicate e tali che molti soggetti umani attivi nel nostro paese credono profondamente che esso sia inevitabile, una sorta di “legge di natura”, parte integrante dell’esperienza di vita quotidiana.
Di fronte a tale quadro la Pogliana precisa che tutto “questo non vuol dire che esiste un modello cattivo a cui si contrappone un nuovo modello buono. Anche i modelli che si sono storicamente affermati avevano la loro ragione d’essere. Il problema è l’estremizzazione, l’unicità, la rigidità, la fissità. La realtà aziendale e il mondo del lavoro sono cambiati, dunque i modelli non sono più adeguati o non bastano più da soli. Questa è la novità che portano le donne, inevitabilmente, entrando in un mondo e rivestendo ruoli che non prevedevano affatto di incarnarsi in una donna” (ivi pag 182). A un diverso modo di essere, quello femminile, potrebbe, dovrebbe seguire una diversa visione del mondo.
In altre parole la prospettiva ideale dettata, desiderata, dalle donne con ruoli direttivi testimoniate dalla ricerca della Pogliana e, più in generale, dall’intero movimento di idee sull’organizzazione aziendale e sull’incontro in esso di generi e culture diverse da esse testimoniato, potrebbe, lungo la traccia dell’insegnamento della scienza della complessità, essere il transito da una visione dell’esperienza organizzativa orientata dal “vertice del controllo” ad una orientata dal “vertice dell’autonomia”

CONTROLLO
L’UTENTE E I SETTORI DISTRIBUTIVI IN SENSO LATO SONO RAPPRESENTATI E GESTITI IN QUANTO UNITA’ ETERONOME.
ESSI SONO IN QUANTO TALI DETERMINATI DALL’AMBIENTE AD ESSI ESTERNO.
TALE RELAZIONE E’ LETTA SECONDO UNA LOGICA DI CORRISPONDENZA.
L’AMBIENTE - L’INSIEME PRESCRITTIVO FORMALIZZATO DALLE SCELTE, DALLE DECISIONI E DALLE AZIONI DELL’AUTORITA’ EROGATRICE DELSERVIZIO - E’ IN RELAZIONE DI CONTROLLO CON IL SISTEMA VIVENTE DELL’UTENTE E DEI SETTORI DISTRIBUTIVI IN GENERE.
L’AUTORITA’ EROGATRICE PONE I PROBLEMI E INDICA LE SOLUZIONI MIGLIORI.
L’UTENTE E I SETTORI DISTRIBUTIVI IN GENERE CERCANO, ATTRAVERSO
REAZIONI, DI RISPONDERE A QUESTE ESIGENZE.
L’UTENTE E I SETTORI DISTRIBUTIVI IN GENERE SONO CHIAMATI AD UN APPRENDIMENTO PREVISTO NEL SUO TRAGUARDO FINALE FIN DALL’AVVIO E CONSISTENTE NELL’ESPRESSIONE DI COMPORTAMENTI SECONDO I MODELLI INDICATI DALL’AUTORITA’ EROGATRICE.

AUTONOMIA
L’AUTORITA’ EROGATRICE DEL SERVIZIO ACCETTA E FA SUA UNA VISIONE CHE NON PROSPETTA UNA DESCRIZIONE DEFINITIVA E PERFETTA DELL’UTENTE E DEI SETTORI DISTRIBUTIVI IN GENERE.
LA GESTIONE DELL’AUTORITA’ EROGATRICE (E IL SISTEMA COGNITIVO RELATIVO) SI SVOLGE IN MODO INCOMPLETO, MA INTERESSATA A SEGUIRE, SUL PIANO DELL’ESPERIENZA DIRETTA, QUALI CARATTERISTICHE SPECIFICHE L’UTENTE E I SETTORI DISTRIBUTIVI IN GENERE POSSONO SVILUPPARE.
E’ UNA GESTIONE DELLA VITA VIVENTE E NON DELLA VITA STATICA: E’ UNA CONOSCENZA/GESTIONE CHE ACCOGLIE LA VITA, DEFINENDO E AGENDO VITA E COGNIZIONE COME INTERDIPENDENTI.
UTENTE E SETTORI DISTRIBUTIVI IN GENERE CONSERVANO LA LORO
AUTONOMIA, MUTANDO IN COERENZA CON LE PROPRIE CARATTERISTICHE
VITALI: LE INFLUENZE DELL’AUTORITA’ EROGATRICE DEL SERVIZIO (PERTURBAZIONI) POSSONO AVVIARE, FAVORIRE MA NON COSTITUIRE IL LORO CAMMINO EVOLUTIVO.
SE RESTA AMPIO E NON PRE-DEFINIBILE LO SPAZIO DI INTERAZIONE PER L’AUTORITA’ EROGATRICE, RESTA APERTA PER L’UTENTE E I SETTORI DISTRIBUTIVI IN SENSO LATO UNA CRESCITA DELLA PROPRIA AUTO-ORGANIZZAZIONE, SENZA UNA NECESSARIA CONNESSIONE ALL’IDEA DI UN PROGRAMMA DETTATO DALL’ESTERNO.

Non siamo – è una speranza – solo nell’universo dell’utopia; crediamo, vogliamo essere nell’universo della speranza. E la speranza può essere nutrita, in diretto riferimento allo straordinario lavoro di Luisa Pogliana, da alcune osservazioni e da alcune suggestioni:
non è sempre e del tutto corrispondente a verità che “l’affettività, le emozioni, la novità portata appunto dalle donne ‘venga’ spesso citata, anche nei convegni, in situazioni pubbliche, con toni di melassa o di condiscendenza … una differenza che si può concedere perché può essere fatta apparire come una aggiunta marginale che si inquadra nel modello tradizionale” (ivi pag. 137). A ben cercare anche nel nostro povero Paese si trova a questo proposito qualcosa di buono: esistono associazioni culturali molto attive, ormai distribuite strategicamente in tutto il territorio, che operano sui temi della vita affettiva nelle organizzazioni con grande impegno, con il coinvolgimento tentativamente paritetico nei gruppi di lavoro di donne e uomini. Sono ovviamente microstorie di discontinuità rispetto ad una macro storia ancora disegno diverso chiaramente denunciata dalla Pogliana;
non è sempre vero, riferendoci ai programmi universitari ed a i Master e ai modelli proposti di general manager e di Leadership che si propagandi unicamente “un modello per tutti, un modello maschile, che dà per scontato di essere l’unico possibile perché l’unico buono; che quindi toglie valore a qualunque altra modalità, a qualunque diversa competenza invece necessaria” (ivi pag 139). A ben cercare anche nel nostro povero Paese sono saldi ormai da molti anni progetti di formazione manageriale e di alta formazione nei quali il tema della Leadership e in generale della Gestione Aziendale è affrontato con approcci multidisciplinari nei quali si confondono e le tendenze ultime relazionali della psicologia dinamica e le scoperte più recenti delle neuroscienze sui processi cognitivi, capaci di offrire agli utenti non modelli ma occasioni emergenti generative di una ricerca verso una gestione della leadership la più possibile embodied, calata nei contesti specifici, frutto di una generatività ricorsiva tra soggetto e ambiente;
Viviamo tempi la cui gestione ottimale necessita sempre di più dei cosiddetti valori “femminili” quali l’affettività, l’emozione, la cura, l’empatia, la compassione, accanto all’achievement, alla determinazione decisionale, alla capacità di contenimento delle ambiguità insopprimibili che la difficoltà della realtà quotidiana oggi ci presenta ogni giorno. Occorre avere la spudoratezza, malgrado le nebbie ancora alte presenti in tutti i nostri mondi, di credere che la contemporaneità lavori per un consolidamento ogni giorno più saldo della visione “femminile” delle organizzazioni. Si afferma tutto questo sorretti dalla convinzione che quello che occorre profondamente è un salto, una discontinuità profonda. In altre parole sembra di poter dire che accanto alle donne e ai maschi esistano il femminile ed il maschile, che non sono quali tratti profondi dell’Io umano, patrimonio esclusivo il primo delle donne, il secondo degli uomini. Sono invece tratti presenti entrambi in entrambi i generi e che fraintendimenti e pressioni culturali impediscono di essere nella loro presenza percepiti insieme da parte dei due generi, che per sessualità primaria sono obbligati culturalmente a testimoniarne tendenzialmente uno solo. Dalla vita noi abbiamo ricevuto come donne e uomini i due generi e le nostre due visioni del mondo; tertium non datur: il terzo spazio è sempre una conquista e il nostro traguardo è un’autentica bisessualità, la capacità interna da parte dei due generi di sentire i loro tratti dominanti ma anche quei tratti dell’altro genere che ospitano da sempre come ospiti sconosciuti e che il dolore della condizione femminile presente e l’urgenza complessa dei problemi presenti dovrebbe rigenerare fino a trasformarsi da ospite sconosciuto ad un atteso imprevisto.

Questa sembra la sfida che abbiamo di fronte e che il principio della speranza e il coraggio di testimonianze come quella di Luisa Pogliana non potrà non nutrire.

Giuseppe Varchetta

Presentazione all'apertura del MomCoach a Milano

MOMCOACH: Coaching e Networking al femminile

Martedì 17 Novembre 2009, Ore 18.30, Via dei Pellegrini 14 - 20122 Milano

Essere mamma oggi spesso significa voler conciliare maternità femminilità e lavoro. MomCoach è il nostro contributo per valorizzare la donna in tutte le sue espressioni. Con la speciale partecipazione di Luisa Pogliana autrice di Donne senza guscio

www.dols.net coach@dols.net

venerdì 30 ottobre 2009

Presentazione a Perugia nell'ambito di Umbria Libri

Venerdì 13 novembre il libro Donne senza guscio verrà presentato a Perugia, nell'ambito della manifestazione Umbria Libri. Interverranno l'assessore provinciale Ornella Bellini e la giornalista Anna Lia Sabelli Fioretti.
L'incontro è alle alle 18.30, presso la Sala Lippi di Unicredit Banca di Roma, corso Vannucci 39.
Informazioni e programma della manifestazione si trovano su www.umbrialibri.com
Grazie tante alle organizzatrici per questa ospitalità.

mercoledì 14 ottobre 2009

Una presentazione del libro a Roma presso il Mom Camp di Working mothers Italy

Sabato 17 ottobre, alle ore 12, ci sarà a Roma una presentazione e discussione di Donne senza guscio, nell'ambito del Mom Camp organizzato da Working Mothers Italy (Casa delle Donne, via della Lungara 19).
Insieme a me ci saranno alcune donne che hanno partecipato alla ricerca su cui si basa il libro.
Se volete sapere di più sul Mom Camp: www.momcamp.it

domenica 11 ottobre 2009

Intervista sul sito dol's

Il sito dol's ha publicato un'intervista sui temi del libro.

Il sito, partito dallo specifico rapporto delle donne con la tecnologia, si è ora allargato a temi più generali, semza perdere la sua attenzione alle origini. Forse una dimostrazione di come difficilmente le donne dividono a fette la loro vita.
Grazie a Caterina Dutto e Caterina Della Torre per l'attenzione e l'interesse.

sabato 10 ottobre 2009

Presentazione del libro all'Università Statale di Milano- 15.10.09

Sono molto grata al Comitato Pari Opportunità dell'Università Statale di Milano per aver voluto questa presentazione, e per la qualità delle persone presenti per parlarne. Bianca Beccalli, in particolare, è stata importante nella mia formazione, e mi ha commosso incontrarla, così interessata e piena di attenzione.
E poi tantissime grazie devo a Valentino Albini, fotografo ufficiale dell'Università Statale, che ha sostenuto questa iniziativa con sorprendente convinzione sulla sua utilità.

Intervista su Persone&Conoscenze

Un 'intervista di Chiara Lupi su Persone&Conoscenze nel numero di settembre, approfondisce alcuni aspetti del libro Donne senza guscio. Con altre due interviste a donne manager, il servizio parla dei temi del management femminile. Grazie a Chiara, a sua volta autrice del libro Dirigenti disperate, edizioni Este, Milano, 2009.

Segnalazione su Il Corriere di Bologna, L'Espresso, Il Dirigente, Il Giornale

Questa recensione su Il Corriere, edizione di Bologna, è stata la prima, in occasione della presentazione in anteprima a Bologna, per AIDP. Ringrazio chi mi ha fatto l'intervista, per l'interesse e l'entusiasmo per questi temi. Certo, io non avrei messo quel titolo: io personalmente e le donne che hanno partecipato alla ricerca non siamo disilluse, magari arrabbiate, spiaciute, ma anche contente e sicure di poter andare avanti sulla nostra strada.

Una segnalazione del libro è apparsa su L'Espresso. "Una cosa piccola ma buona", per usare le parole di Carver. Grazie a Daniela Hamaui per questo sostegno.

Un'altra segnalazione. utile su una rivista professionale, è stata fatta su Il Dirigente 1-9-09

E c'è anche questa segnalazione su Il Giornale. A ognuno il suo stile.

Recensione su Donna Moderna e Grazia

Giusy Cascio ha parato del libro su Donna Moderna con una mia intervista. Per questa recensione ringrazio il Condirettore Cipriana Dall'Orto e l'autrice dell'articolo per l'interesse dimostrato. Solo, io non mi definerei "una che ce l'ha fatta", e forse non sono stata chiara a proposito degli asili: non intendevo dire che è facile chiederli, ma che non basta, bisogna agire anche verso l'azienda.

Caterina Duzzi su Grazia ha presentato Donne senza guscio insieme ad alcuni libri sul tema del management femminile, con un'intervista all'autrice e a Cristina Bombelli (autrice di Alice in businessland). Ed è comparso anche Abbracciare l'orso, libro sull'affettività nel lavoro che ho scritto con Giovanna Galletti e Gianna Mazzini.
Molte grazie a Vera Montanari per il suo interesse.

Recensione su MioJob

Il libro è stato presentato nel portale MioJob, da Luca Baldazzi, che ha fatto un'accurata e fedele ricognizione dei temi principali del libro. Grazie.


venerdì 25 settembre 2009

Presentazione del libro sulla Newsletter di Progetto Donna

Ringrazio per questa presentazione sulla newsletter di Progetto Donna, la presidente Roberta Bortolucci, con cui ho avuto buoni scambi, e ha anche partecipato alla ricerca alla base del libro Donne denza Guscio. Progetto Donna è un centro studi per la ricerca e lo sviluppo delle Pari Opportunità. www.progettodonna.net

lunedì 21 settembre 2009

Recensione sul sito Kila

Sono molto grata a Michela Damasco per lo spazio e l'attenzione che ha dedicato a questo libro sul sito Kila. O per dire la cosa più importante: l'attenzione dedicata a questi temi. Che ha trattato con grande accuratezza.
Kila è il sito dedicato alle Pari Opportunità della Regione Piemonte, un punto di riferimento importante.

sabato 19 settembre 2009

'Donne senza guscio' su Working Mothers Italy

Sul blog di Working Mothers Italy c'è una discussione su Donne senza guscio. Lo segnalo perché è una comunità interessante e utile per il tema specifico. Gli scambi che ho avuto con loro, in particolare con Manuela Marzola, sono stati costruttivi (e piacevoli).

martedì 18 agosto 2009

La mia mamma fa un lavoro tipo dirigente d'azienda. Cosa pensano i figli delle donne dirigenti del lavoro delle loro madri.

Qualche tempo fa parlavo con Marella Caramazza, direttore generale dell'ISTUD, che aveva accettato di partecipare ad una mia ricerca sulle donne manager. Con Marella, che ha due figli, emerge un aspetto già ricorrente nelle altre interviste: i sensi di colpa delle mamme dirigenti. Ovvero uno dei nodi comuni a tutte le donne che lavorano e investono sulla loro realizzazione professionale oltre che familiare: ci si sente sempre di sacrificare qualcosa rispetto a come si vorrebbe essere mamme: tempo, attenzioni, vicinanza.
Ma Marella mi dice una cosa in più: Mi piacerebbe proprio fare una ricerca per vedere come loro vivono veramente questa situazione, la realtà potrebbe essere diversa. Questi figli, insieme ai problemi, forse trovano nel modo di essere delle loro mamme anche qualche ricchezza in più. Colgo la palla al balzo: perché non chiederglielo? Fare ricerca su questi temi è il mio lavoro. Preparo un progetto per ISTUD, che trova il contributo economico di Fondirigenti. Nel gruppo di lavoro entra Federica Viganò, e la ricerca parte. Con un approccio nuovo: mettiamo al centro i bambini e le bambine, sentiamo loro cosa hanno da dire. Dunque, accanto all'esperienza delle mamme dirigenti con le loro proposte alle aziende, ascoltare soprattutto i vissuti dei loro figli e delle loro figlie verso la professione delle mamme. Per vedere se e quanto i sensi di colpa di queste donne possano essere andati oltre il loro disagio reale, perché alimentati anche da pressioni sociali e culturali.
La ricerca – che prossimamente potrebbe diventare una pubblicazione, e l'oggetto di un convegno- ha dato risultati di grande interesse: le ragazzi e e i ragazzi ci danno belle lezioni di maturità e di capacità. Ne propongo qui alcuni aspetti, cominciando proprio dalla loro esperienza.

Assenti ma presenti

Il quadro che i ragazzi e le ragazze ci offrono, parlando della loro vita con una mamma molto impegnata nel lavoro, non si presenta particolarmente problematico, anzi, piuttosto sereno.
Certo, le loro giornate, soprattutto quando erano più piccoli, sono segnate dalla lontananza dei genitori, della mamma specificamente. Ma i ragazzi e le ragazze non sembrano risentirne quanto o nel modo che forse ci si aspetterebbe. In genere non emergono momenti in cui abbiano sofferto particolarmente la loro situazione. Anche se questa visione sostanzialmente positiva non significa che non vedano, non sperimentino anche gli svantaggi.
Qui i problemi si concentrano sul poco tempo che la mamma passa con loro, sul fatto che il lavoro la tiene lontana. A volte, anche quando è a casa: allora può essere lontana con la testa.

“Io la volevo di più, mi piaceva quando faceva il part time e passavamo il pomeriggio insieme”, “Forse solo quando c'era il confronto con gli altri bambini che avevano la mamma che andava a prenderli a scuola”,“Solo in qualche momento particolare, oppure tornare a casa la sera e lei non c'era perché arrivava tardi, oppure se non c'era la domenica per un impegno di lavoro”,“Ha meno tempo per noi”,“Non stiamo molto insieme”,“A causa del suo lavoro mi sento un po' distante dalla sua vita”, “Non ci sono cose negative, tranne il fatto che ogni tanto il lavoro la stressa”,“Lavora e quindi non mi ascolta, la chiamo e dice 'un momento', e poi aspetto tre ore”


La mancanza, certamente si sente, c'è il desiderio di avere la mamma un po' più per sé. Tuttavia non se ne parla in modo veramente problematico. Questi momenti di 'mancanza' sembrano collocarsi in un quadro di sicurezza di fondo. La ragione appare evidente : la mamma, assente fisicamente durante la giornata di lavoro, è però una presenza molto vicina e affettuosa quando c'è e quando ce n'è bisogno ,o nei momenti importanti.

“Lei mi stava vicino quando c'era veramente bisogno, il primo giorno di scuola mi ha accompagnata lei”,“La mamma c'era sempre quando serviva”, “A casa c'è poco, ma quando c'è è molto presente, vuole sapere veramente come sto”, “Sa esserci quando c'è bisogno, è attenta ad aiutare, sa conciliare le due cose”, “In casa si sente se c'è, fa da mangiare lei, è disponibile, non ci sacrifica”, “Il suo cellulare squilla sempre, lei a volte rifiuta, ma se chiamo io non rifiuta mai”, “La mamma mi risponde, se non può dice che richiama”,“Mi dice sempre che il disegno che ho fatto è bello, ma lo fa per farmi piacere. Magari ho fatto un albero con i rami arancione ma lei dice sempre 'Uh che bello!'”, “I compiti li faccio da sola, ma se ho bisogno di aiuto lei viene”, “E' attenta al minimo dettaglio anche per la famiglia, gestisce anche la famiglia come il lavoro”, “Non c'è tantissimo, ma quando c'è è anche pesante, perché è attenta e controlla tutto, mi controlla”, “E' disponibile ma severa, mi interroga”, “Apprensiva per i figli, i pericoli, mi dice di non chattare con gli sconosciuti”

Nei piccoli ritratti che i ragazzi fanno della mamma, emergono figure dolci e comprensive, ma con polso saldo, anche troppo esigenti: forse proprio perché non sempre presenti, esercitano forti pressioni educative verso figli. Anche se non manca qualche critica.

“Programma sempre tutto. Il giovedì discute un'ora con mio padre su cosa dobbiamo fare nel weekend”, “E' spesso nervosa per il lavoro, perché deve fare mille cose insieme”, “Siccome non sta a casa non ha capito il giusto equilibrio di ritmo, anche a casa impone ritmi da ufficio”, “A casa è una leader, noi figli siamo trattati come i suoi in ufficio, lei comanda e dà gli ordini”
“A volte noi parliamo e si vede che la mamma pensa ad altro, dice 'si va bene'”,“E' sempre al telefono quando è a casa”, “Una volta ha detto 'Andiamo a fare una passeggiata' e poi ha parlato sempre al cellulare all'andata e al ritorno”, “Se devo dirle che ho preso 10 devo aspettare che finisca di parlare con l'altro, poi magari dice 'bravo' a lui”

La mamma ha comportamenti 'da dirigente' anche a casa, o continua a occuparsi di lavoro quando è con loro. Sono rilievi fatti con un atteggiamento indulgente. Ma lasciano intravedere un certo fastidio quando il lavoro interferisce con il tempo riservato a loro (la sera e il week end). Come se ci fosse un patto di equilibrio e compensazione tra mamme e figli, nella destinazione del tempo.
Certamente tutto questo quadro non vuol dire che nell'infanzia questi ragazzi non abbiano sofferto per la situazione, ma se anche così è stato, non sembra aver lasciato tracce problematiche, anzi, sembra oggi ben elaborato. La percezione della loro vita familiare appare, dal loro modo di rappresentarla, come una situazione ricca e apprezzata. I figli sembrano sentire che c'è una presenza affettiva, di cura, di controllo e di sostegno: è questo che percepiscono e apprezzano, al di là della presenza fisica continua. E' questo il fatto essenziale che porta i ragazzi ad un bilancio più spostato sugli aspetti positivi: il lavoro non sottrae realmente la mamma, e porta anche cose buone. Nessuno, infatti, pensa che sarebbe stato meglio avere una mamma a casa.

“Adesso dico di no”, “Crescendo la cosa ti piace, perché non ero troppo controllata, anche perché studiavo e andavo bene. Non invidiavo più quelle che avevano le mamma oppressive”,“Le altre avevano madri frustratissime, con un rapporto pessimo con la figlia. Erano poco presenti anche se non lavoravano o facevano le insegnanti, nel senso che facevano scenate, si preoccupavano dell'amante del marito”


Autonomi e maturi

In generale, ragazze e ragazzi sono convinti di “avere qualcosa in più” rispetto a chi ha una mamma che non lavora o ha un lavoro non molto impegnativo. Ed esprimono un parere convinto: a loro piace che la mamma lavori. Soprattutto le bambine appaiono solidali con la scelta della mamma, di cui sembrano orgogliose. Con qualche dichiarazione sorprendente, e la capacità di cogliere nella loro mamma una dimensione insolita: una donna che non solo si ama come mamma, ma che piace.

“E' euforica, contenta, anche se ha i suoi momenti...”, “A me piace com'è la mia mamma”, “A me piace il carattere di mia mamma”, “La mia mamma mi piace”
“Sono contenta di avere la mamma che lavora, ma proprio tantissimo”, “Io sono contentissima che la mamma lavori”, “Cosa fa una mamma a casa tutto il giorno? tanto noi bambine siamo a scuola, cosa deve fare?”

I vantaggi che questo comporta si concentrano innanzitutto sul fatto che una presenza continua della mamma sarebbe più oppressiva per loro e un peso anche per lei. Non si tratta tanto di non essere pressati da controlli, ai quali sono comunque sottoposti, ma di sentirsi autonomi, capaci di gestirsi, di prendersi le proprie responsabilità. Si sentono liberi di amministrarsi e capaci di farlo, con un' autonomia precoce rispetto ai compagni.
L'impegno professionale della mamma è stato positivo per la loro crescita,: sentono di essere cresciuti, invece che fuori controllo, più maturi. Grazie anche ad una mentalità più aperta della mamma, e ad una ricchezza di esperienze che la mamma trasmette loro dal suo lavoro, al suo modo di pensare, di affrontare la vita.

“Lei può stare sola a pensare ai fatti suoi e non deve pensare sempre a cucinare”,“Sarebbe stato un super controllo, invece così o e mia sorella ci siamo abituate a fare da sole, ad auto organizzarci”, “Gli altri che avevano la mamma addosso finiva che non studiavano, noi ci sentivamo più responsabili, dandoci più autonomia siamo diventate più mature”,“Alle medie facevo già tutto da sola, gli altri avevano sempre la mamma dietro”, “Vedevo gente che ancora al liceo si faceva aiutare dai genitori con i compiti, io ho imparato a studiare da sola. Adesso sono una che si regola e se la cava da sola, io devo farcela da sola perché è compito mio, non devo ricorrere ai genitori”,“Ho avuto vantaggi di indipendenza, facevo da mangiare alla sera già alle elementari, impari a cavartela senza avere qualcuno vicino che si preoccupa, quello che devi fare lo sai fare tu, io l'ho fatto e sono contenta”, “Mi sono anche abituata ad essere sola nelle scelte e nella vita di tutti i giorni”, “Lei non ci cerca sempre, ci lascia anche libere di sbagliare”, “Va bene così, noi siamo contenti, non cambierei niente in lei, e poi mi pare che siamo venuti fuori delle belle persone“, ”Mi ha dato ampie vedute, mi propone cose come andare all'estero a studiare, cosa che altri ragazzi volevano fare e non li hanno lasciati, lei è aperta di mente e ce lo trasmette”, “Mi ha dato l'opportunità di imparare tante cose”, “Porta a casa le esperienze, le cose interessanti, non ci esclude dal suo lavoro”

Spesso non si trascura nemmeno il contributo economico che porta in famiglia. Ragazzi e ragazze ne parlano un po' ridendo, ma sono consapevoli che è un vantaggio non da poco. E non manifestano, dunque, un'idea sbilanciata di ruoli familiare secondo gli stereotipi che vedono il perno nel lavoro del padre.

“La mamma guadagna”(assenso e risate collettive),“Anche noi così abbiamo più soldi, possiamo fare più cose, possiamo viaggiare di più”, “Con il suo lavoro ci dà delle migliori condizioni economiche”

E subito dopo aver parlato dei propri vantaggi, l'attenzione, con grande maturità, si concentra proprio sulla mamma come persona, su quello che pensano essere gli aspetti vantaggiosi per lei. Tutte e tutti concordano sul fatto che è importante che lei lavori, che faccia proprio questo lavoro, perché è la sua realizzazione, è fonte di gratificazione, corrisponde al suo carattere e ai suoi desideri. Vedono una donna soddisfatta, e c'è un vero orgoglio di avere una mamma così, capace e interessante in modo un po' diverso.

“Non ce la vedo proprio a stare a casa, a non fare il manager” , “Mia mamma scapperebbe da casa”,“Uscirebbe pazza”,“E' bello avere una madre realizzata e felice del proprio lavoro”, “Si vede il suo entusiasmo nel lavoro, la sua grande soddisfazione”, “A lei il suo lavoro piace, mi fa piacere che abbia raggiunto una soddisfazione nel lavoro”, “Essere un manager la fa sentire un po' stressata, ma dimostra sempre gioia di lavorare”,“Mi sento orgoglioso di avere una madre così”, “Io con una mamma del genere mi sono sempre sentito un po' diverso, orgoglioso”, “Io sono orgoglioso, poi sul lavoro lei ci è già passata e ti aiuta”

E qui la ricerca apre ad un altro tema: gli effetti del modello professionale materno. Su cui sarà interessante ritornare. Ma fermiamoci per ora su quello che queste esperienze hanno da dire sui sensi di colpa delle donne che cercano una realizzazione anche nel lavoro, verso i loro figli.

Se la mamma fosse un animale

Per completare il quadro di questi vissuti della mamma, una mamma impegnata anche nel lavoro, ai ragazzi è stato chiesto di fare un gioco. In realtà, un test proiettivo per andare oltre le dichiarazioni magari un po' razionalizzate, ed esplorare l'immagine della mamma a livello simbolico e affettivo: se la mamma si trasformasse in un animale, che animale sarebbe?
Ne escono rappresentazioni che valorizzano la personalità complessiva della mamma.
C'è una presenza di tratti chiaramente legati al lavoro: animali che lavorano molto (formica, uccello migratore, delfino che ha relazioni e discute, orso che si addormenta per la stanchezza), oppure tratti di forza, autorità, superiorità (aquila) che fanno pensare alla parte di personalità della mamma che si esprime proprio nel suo specifico lavoro.
Accanto a questo, compare in altri casi, o anche contemporaneamente, la rappresentazione del suo atteggiamento materno verso i figli. Vediamo così animali che si prendono cura dei cuccioli (canguro, un po' simbiotico, leonessa che si occupa dei piccoli, uccello che si occupa dei passerotti, orso che si arrabbia -sottinteso, con i figli-), animali in cui non mancano comunque tratti di forza e autorità (orso terribile, leonessa che comanda).

“Un delfino, perché espansiva, aperta, dialoga con tutti partecipa alle discussioni”, “Sarebbe un orso, perché appena si stende sul divano si addormenta, e perché se si arrabbia diventa terribile”, “Una formica perché deve lavorare tanto”, “Un'aquila, per la sua autorità e generosità”, “Un canguro, perché lei è protettiva nei miei confronti, vorrebbe portarmi sempre con sé”, “Una leonessa, si occupa dei figli e stabilisce ordine in casa”, “Un uccello, perché è allegra, è occupata dai passerotti, e viaggia tanto per lavoro, è un uccello migratore”

Queste immagini confermano che, anche nel vissuto profondo, la percezione della mamma comprende i suoi due aspetti fondamentali agli occhi dei figli: l'essere una buona mamma e fare un lavoro impegnativo, senza accenti negativi per un aspetto verso l'altro. Rispetto alla componente legata al lavoro, se mai colgono qualcosa di problematico, è più l'elemento della sua fatica, del suo tanto lavoro, che non gli effetti di lontananza dai figli. Sembrano quasi più sensibili verso la mamma che verso se stessi.

Il bisogno di crescere

L'assenza fisica della mamma, nelle esperienze raccolte, non si configura necessariamente come sofferta mancanza, ma piuttosto come una delle tante prove che si affrontano per crescere. In questi casi, una prova che più che privazioni porta una crescita, rispondendo ad un bisogno fondamentale dello sviluppo psicologico del bambino.
Che è proprio il bisogno di separarsi dalla mamma per poter crescere, imparare a stare nel mondo, a godere di altre relazioni. La separazione è indispensabile alla crescita. L'importante è fare buone separazioni, gestirle bene (come dai racconti dei bambini sembrano avere fatto queste mamme) trasmettendo al bambino tranquillità e vicinanza, comunicando il senso di questo allontanarsi per il lavoro e anche l'importanza e il piacere che questo ha per sé. Invece di trasmettere stati d'animo emotivi di senso di colpa e ansia iperprotettiva.
Si potrebbe dire che c'è quasi una soluzione naturale nel conflitto tra stare con i figli e andare a lavorare: ciò che fa bene alla mamma fa bene anche al bambino.
E infatti vediamo quanto i ragazzi che si sono raccontati sono felici e orgogliosi proprio della loro crescita e autonomia, di cui hanno saputo fare uso responsabile e maturo.
Evidentemente non possiamo generalizzare e pensare che sia sempre così. Tutto dipende sempre dalla qualità delle persone in gioco, e da molte altre circostanze. Ma, se non succede sempre così quando una mamma ha un lavoro impegnativo come quello manageriale, possiamo però dire che una mamma che persegue la sua realizzazione anche in un lavoro molto assorbente, non inevitabilmente crea mancanze nella vita dei figli.
La capacità di queste donne di essere comunque presenti nella vita dei figli e delle figlie permette a questi di sopportare senza vera sofferenza la lontananza dovuta al lavoro, e apporta molte ricchezze nella costruzione della loro identità. Tanto da da stimolarne la crescita, l'autonomia, la responsabilizzazione, la maturità molto più che con una presenza fisica continuativa e magari iperprotettiva. E tanto da costituirsi come modello personale e professionale per la loro vita.
Certo, a condizione di investire in tutt'e due le direzioni, di non appiattirsi su un percorso di carriera a qualunque prezzo, con la capacità che hanno le donne di essere presenti in più mondi contemporaneamente. E con la consapevolezza che in questo modo sono buone mamme anche se non si sentono perfette (come diceva Winnicot, i bambini hanno bisogno di mamme 'sufficientemente buone', non di mamme perfette).
Questo, ovviamente, non vuol dire che le mamme manager possano essere contente così. Perché riuscire in questa 'buona separazione', per donne che fanno questo lavoro, vuol dire fare enormi fatiche, gestire una complessità di vita che certamente dà soddisfazioni su tutti i fronti ma con prezzi molto elevati. A volte prezzi e fatiche non inevitabilmente così pesanti. E infatti, quando -nella ricerca- sono le mamme a parlare dei loro problemi tra maternità e azienda, l'attuale cultura aziendale e l'organizzazione del lavoro di stampo maschile sono ampiamente chiamate in causa come fattori inutilmente penalizzanti. Penalizzanti per le donne manager in generale, ma soprattutto per quelle che scelgono di avere figli. I sensi di colpa sono, dunque, magari eccessivi, infondati per alcuni aspetti, ma certamente anche frutto di indebite e inutili pressioni aziendali.

Luisa Pogliana

Materiale tratto da una ricerca ISTUD, realizzata da Marella Caramazza, Luisa Pogliana, Federica Viganò
(Scritto per Persone&Conoscenze, agosto 2009)

La ricerca

La ricerca è stata una prima esplorazione del problema, senza voler rappresentare esaustivamente la situazione. Perciò è stata di tipo qualitativo, volta ad esaminare in profondità il problema, tramite un piccolo campione. Sono stati svolti a Milano 6 colloqui di gruppo: 2 con mamme dirigenti, 4 con ragazze e ragazzi figli di donne che fanno questo lavoro (suddivisi per età: 10-12, 14-15, 17-18 anni, per raccogliere l'esperienza e l'elaborazione successiva. I colloqui con ragazze e ragazzi sono stati condotti da Beatrice Ferri).
Probabilmente le mamme che hanno accettato di collaborare (personalmente o autorizzando i figli), l'hanno fatto perché sono particolarmente tranquille nel rapporto con i figli. Ma, appunto, non si voleva rappresentare tutta la realtà; si voleva piuttosto vedere se e come è possibile che questa realtà sia meno problematica di quanto si crede.

sabato 18 luglio 2009

Presentazioni in anteprima - CATANIA


La seconda presentazione in anteprima del libro si tiene a Catania, in quattro diversi incontri:

lunedì 20 luglio 2009
-alle 16.30 presso la Ludoteca Favolandia, piazza Cavour 23
-alle 19 presso il Lido di Licuti, viale Ruggero di Lauria 4
martedì 21 luglio
-alle 12.30 presso Haiku, via Quintino Sella 28
-alle 16.30 presso il Lido dei Ciclopi, via Provinciale 3, Aci Castello.

Insieme con la discussione sul libro verrà presentato il workshop di formazione per donne manager e professioniste, con una parte basata sul libro, che si terrà in diversi ambiti nell'autunno 2009 .

Tutta l'iniziativa è stata progettata e realizzata dall'associazione professionale LIOTRO


Qui potete vedere la locandina delle presentazioni.

domenica 28 giugno 2009

Presentazione in anteprima- BOLOGNA


Mercoledì 1 luglio ore 17.30, Bologna
Villa Aretusi, Via Aretusi 5

Anteprima del libro in uscita a settembre :

DONNE SENZA GUSCIO
Percorsi femminili in azienda
di Luisa Pogliana
edito da Guerini e Associati

discutono con l’autrice:

Isabella Covili Faggioli -Presidente Nazionale AIDP Promotion
Rossella Seragnoli- HR Manager di Crown Aerosols Italia
coordina
Marco Biagi - Presidente AIDP Emilia Romagna e Direttore del Personale di Bologna Fiere

mercoledì 20 maggio 2009

Articoli: Potete fidarvi delle donne


Quando lavoravo nell'azienda precedente, ci fu un momento di crisi molto seria. Fui convocata dal mio capo, mi disse che contava molto su di me, perché ero tra gli elementi migliori. Io uscii tutta orgogliosa di questo atto di stima e di fiducia, e mi impegnai in modo straordinario per diversi mesi. Quando si videro i primi segnali positivi, mi espresse tutta la sua soddisfazione per il mio lavoro: ero stata bravissima. E io usci dalla sua stanza felice. Non ebbi altro”.

Ecco: un'azienda in crisi e la reazione di una sua dirigente. L'interesse dell'azienda prima di tutto. Normale? Ad un uomo non s1arebbe mai successo. Un uomo avrebbe contrattato prima e preteso dopo. Certo, si potrebbe liquidare l'episodio facilmente e con un po' di superiorità: la solita incapacità di chiedere delle donne. Che è verissima, problematica, e le donne stesse ritengono che questo sia uno degli 'errori' più importanti nella loro vita di lavoro.
Eppure, molte volte ciò che si chiama errore è un pregio inestimabile, non valorizzato, anzi, spesso strumentalizzato. Non siamo solo ingenue e incapaci se non puntiamo tutto sui soldi. Dentro questo episodio si possono leggere anche cose ben diverse, e su cui riflettere, soprattutto in tempi di crisi gravissima, che non dovrebbe consentire di trascurare nulla.
Bisogna partire dalla base. Innanzitutto la scelta di fare un lavoro qualificato e impegnativo non è un obbligo sociale per una donna. Certo, nella maggioranza dei casi lavorare si deve, ma la decisione di cercare un percorso professionale di alto profilo nasce da una motivazione personale, da quello che si vuole essere. Per un uomo, invece, il modello sociale si fonda imprescindibilmente sul lavoro, sul successo nel lavoro. Si potrebbe dire che mentre un uomo deve, una donna sceglie di fare carriera.
Basterebbe questo per dire che se è arrivata lì ha già superato condizionamenti sociali e filtri aziendali che un uomo non conosce nemmeno. E quindi è due volte più preparata e due volte più motivata. Ma diversa è anche l'aspettativa di queste done verso il lavoro, la loro concezione del lavoro.
Il lavoro a cui ambiscono, il lavoro 'ideale' che perseguono comporta benefici che vanno ben oltre il guadagno economico, oltre la remunerazione in denaro. Ciò che queste donne vogliono dal lavoro riguarda soprattutto le possibilità di autorealizzazione. Il lavoro assume un valore intrinseco, un ruolo primario, orientato alla costruzione di sé, della propria identità.
Il lavoro così inteso esprime valori diversi da quelli dominanti -concentrati su soldi e carriera- e si apre a dimensioni ampie. Coglie e intende come valore anche la dimensione sociale del lavoro. E include una dimensione etica individuale, che si manifesta con sorprendente frequenza nel modo di intendere la propria attività lavorativa. Anche per questi aspetti positivi il denaro non sta ai primi posti dei riconoscimenti attesi.

Più che la retribuzione, oggi per me è molto importante sentire che sto realizzando qualcosa per cui ‘sono nata’”.
“Non ho mai badato ai soldi. La passione, la possibilità di misurarmi con cose nuove, di apprendere, di creare, di innovare, la stima delle persone intorno e dei collaboratori, i risultati concreti mi erano sufficienti”.
“E’ importante per tutti trovare un 'senso' nel proprio lavoro per sentirsi in una piacevole situazione di espansione di sé invece che in una dolorosa circostanza inevitabile”.
“Il mio lavoro mi ha permesso di ottenere i riconoscimenti che contano per me e che consistono in quello che Maslow ha chiamato 'autorealizzazione'. In altre parole sono soprattutto io a essere contenta del mio lavoro”.

“Sentire che col mio lavoro cresce l’azienda e crescono le persone”.
“Un lavoro in cui sento la mia responsabilità verso l’azienda”.
“Un lavoro in cui sento di essere al servizio di un grande progetto”.
“Poter usare la mia intelligenza, energia, creatività per il benessere e il progresso sociale”.
“Una condizione di libertà e di armonia in cui il lavoro è l’ambito sociale in cui esprimerci maggiormente e contribuire al bene comune”.

E forse entrano in gioco anche altre dinamiche, legate a certe consuetudini di ruolo. Come il prendersi cura della famiglia: un lavoro gratuito che viene ripagato dalle relazioni affettive. Come se amore e soldi facessero 100, si potrebbe dire, e dunque dove c'è tanto amore ci possono essere pochi soldi1 . Così lo stesso meccanismo si attiva quando c'è amore per il proprio lavoro, che non motiva a cercare altro. Dove c'è soddisfazione per il lavoro, ci può essere una remunerazione economica insoddisfacente.

“Mi sono appassionata al lavoro e mi ci sono buttata anima e corpo”.
“Sono presa da innamoramento e passione per le cose che faccio”.
“E' stato amore a prima vista ed ho capito che avrei continuato quel lavoro”.
“Ci si può innamorare, della Ferrovia. Ed è quello che è successo a me; i processi, il sistema, la tecnologia, le persone molto competenti, appassionate…”.
“In genere lavoro con passione”.
“Può esserci un innamoramento metaforico per il proprio lavoro. Io amo il mio lavoro”.

In tutto questo c'è qualcosa di molto importante per le aziende (che non è non il bieco pensiero di strumentalizzare questi orientamenti per non remunerare ciò che è giusto: le donne hanno dei valori, non sono sciocche). Qualcosa di non immediatamente evidente.
Scegliere il proprio lavoro, farne uno strumento di realizzazione di sé, amarlo molto, significa che nel rapporto di queste donne con il loro lavoro c'è sempre una presenza di eros. Stiamo parlando, ovviamente, di eros come forza vitale e creativa, come passione, come piacere. Questo porta ad uno specifico femminile negli atteggiamenti verso l'azienda. Dove c'è eros c'è gratuità, c'è dono.
E questo modo di essere verso il loro lavoro coinvolge anche l'azienda, con cui le donne stabiliscono una diversa relazionalità, basata su una forte lealtà. Ecco anche un altro fondamento della dimensione etica così spesso presente nelle donne.
Vengono in mente, a questo proposito, molti episodi arrivati alla cronaca in tempi recenti, con le gravi crisi finanziarie di grandi e grandissime società. Al cui vertice, spesso, abbiamo visto top manager arricchitisi non solo con benefici economici smodati a fronte di danni smodati, ma facendo i propri interessi attraverso il loro ruolo, e a volte proprio rubando e truffando. Ma non abbiamo mai sentito che tra i protagonisti di atti simili ci fossero delle donne.
Certo, sono poche in posizioni di grande potere, ma intanto quelle poche non sono così. E comunque ci sono invece molte donne in posti con meno visibilità ma che sono posizioni chiave, quelle che fanno veramente funzionare l'azienda. Lì ne troviamo molte. E sono preziose proprio per l'attenzione agli interessi aziendali: una forma di investimento sull'azienda.
D'altra parte, senza nemmeno arrivare ai casi delinquenziali, chiunque conosca la vita aziendale sa che i manager investono una buona quota del loro tempo non a sviluppare il lavoro per l'azienda, ma a lavorare direttamente per la propria carriera e il proprio guadagno. Intessendo relazioni, facendo manovre, pensando a cosa ci guadagnano da ogni decisione possibile. Le donne pensano a lavorare, a svolgere il compito, a realizzare l'obiettivo nel migliore dei modi. Di fronte ad un problema, un uomo pensa a chi delegarlo e a come può trarne vantaggio, una donna dice 'ci penso io', e si impegna duramente per risolvere il problema.
Possiamo fermarci qui. Ce n'è abbastanza per dire una cosa che vale sempre, ma tanto più in tempi di crisi. Se dovete assumere un persona, assegnare un ruolo di responsabilità, affidare un progetto, a parità di condizioni puntate su una donna. Potete fidarvi delle donne. Potete fidarvi di più.

Luisa Pogliana
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I brani riportati sono presi da una mia recente ricerca con donne manager.

(Pubblicato su Direzione del personale, n° 1, marzo 2009)

Uno scambio con Anna Zavaritt

Anna Zavaritt:
E' vero che la base della motivazioni in azienda è diversa tra uomini e donne? Il fatto che spesso le prime lavorino per la soddisfazione e l'impegno personale, i secondi per i risultati e quindi i soldi non dipende anche da una diversa politica retributiva?
Si parla molto in questo periodo di "role modeling": è vero che una donna manager puo' avere un effetto "domino" dimostrando che "ci si puo' riuscire"?
Come si fa a " cambiare le regole del gioco " ?

Luisa Pogliana:
Le motivazioni verso il lavoro sono molto diverse nelle donne rispetto agli uomini, e anche la loro concezione di carriera e i comportamenti e le aspettative verso la remunerazione.
Bisogna partire dalla base: la scelta di fare un lavoro qualificato e impegnativo non è un obbligo sociale per una donna. Certo, nella maggioranza dei casi lavorare si deve, ma cercare un percorso professionale di alto profilo nasce da una motivazione personale. Per un uomo, invece, il modello sociale si fonda imprescindibilmente sul lavoro, sul successo. Si potrebbe dire che mentre un uomo deve, una donna sceglie di fare carriera. Quindi diversa è anche la sua aspettativa verso il lavoro.
Il lavoro a cui queste donne ambiscono comporta benefici che vanno ben oltre il guadagno economico. Ciò che vogliono riguarda soprattutto le possibilità di autorealizzazione. Il lavoro assume un valore intrinseco, un ruolo orientato alla costruzione di sé, della propria identità. Anche la concezione di carriera è diversa, vista più come realizzazione di un progetto di vita complessivo, che non esclude tutto il resto della vita.
E' piuttosto questo a incidere sulla loro retribuzione, che non viceversa. Le donne non chiedono, è un problema noto e confermato, per mille motivi. L'educazione tradizionale e sociale che reprime ogni forma di affermazione di sé, ogni richiesta e attenzione per sé. La paura che la contrattazione rovini la relazione con la controparte. La bassa autostima, che le fa sempre dubitare del proprio valore. Contano anche dinamiche legate a consuetudini di ruolo, come il prendersi cura della famiglia, un lavoro gratuito ripagato dalle relazioni affettive: come se amore e soldi facessero 100, e dunque dove c'è tanto amore ci possono essere pochi soldi. Lo stesso meccanismo si attiva con il proprio lavoro: dove c'è passione e soddisfazione per il lavoro (cosa tipica delle donne che scelgono e amano il loro lavoro), ci può essere una remunerazione economica insoddisfacente. In più le donne hanno verso l'azienda un'aspettativa meritocratica: il lavoro ben fatto sarà visto, apprezzato, remunerato. Così non valorizzano il proprio lavoro, non si fanno pubblicità, e il loro lavoro finisce così per passare sotto silenzio.
Si potrebbe continuare molto a lungo su questo problema, perché gli effetti sono disastrosi: se non si chiede abbastanza il nostro valore agli occhi dell'azienda è quello di cui ci siamo accontentate, e in più l'azienda saggia il carattere, e continuerà non solo a non dare, ma a valutare negativamente le doti manageriali di quella donna: la capacità di contrattare, di farsi valere è un dote manageriale.
Per quanto riguarda il role modeling, è ovvio che aiuta, incoraggia. Una cosa di cui le donne sentono molto la mancanza è proprio quello di modelli femminili con cui confrontarsi, che mostrino una via diversa, in cui trovarsi più a proprio agio, e più si arriva a posizioni alte in azienda più si è sole. Ma vedere altre che 'ce l'hanno fatta' funziona davvero solo a certe condizioni. Intanto se una donna si afferma mettendo in campo caratteristiche maschili, adeguandosi al modello unico maschile (come è stato soprattutto nella prima ondata di donne manager), questo è se mai una conferma che per arrivare lì non si può restare donne. Conta invece se quella donna ha raggiunto una posizione importante restando se stessa, mantenendo e valorizzando le sue caratteristiche femminili, un diverso stile di leadership -come si dice molto-, e anche non perdendo per strada il resto della sua vita, per esempio, i figli, l'amore. Allora questo dice molto più chiaramente che si può, e mostra come, mostra un modo diverso di essere leader in cui tutte possono rispecchiarsi e trovare strumenti. Conta infine una cosa importante: la relazione che si può stabilire con altre donne. Se questo percorso non resta un fatto individuale, ma viene messo in circolo, e se viene sostenuto da altre donne, allora crea diventa un passo avanti per tutte. Perché le conquiste individuali che restano tali non cambiano realmente le regole aziendali che penalizzano le donne. Diventano un'eccezione (che conferma le regole), che riguarda solo una persona, e che può essere cancellata, rimangiata in qualunque momento. Se restano e sono gestite come fatto individuale, può anzi rafforzare la bassa stima di sé che molte di noi si portano silenziosamente dentro: “ecco, lei sì che è brava, sono io che non sono capace, che sono solo un bluff”.
Così arriviamo a parlare di come cambiare le regole, domanda per cui ovviamente non c'è una risposta bell'e pronta né tanto meno semplice. La diversità femminile porta a sovvertire i codici, l'organizzazione del lavoro, i tempi e le modalità di relazione. Quello che ho visto io e ho ritrovato nella mia ricerca-libro, è la capacità di molte donne di portare nel loro ruolo manageriale la loro differenza, dandole valore e affermandone il valore. Non ignorano i vincoli entro cui si muovono, ma agiscono tenendo conto di come sono loro e di cosa vogliono, e ogni giorno cercano di allargare i confini del possibile e dell'accettabile. Quello che possiamo fare, dunque, è non accettare che le regole siano comunque più forti, che si debba inevitabilmente adattarsi.
Certo è difficile cambiare da sole, per questo è importante cercare relazioni con le altre donne. Parliamo di network, là dove ci sono, ma anche, più semplicemente, di stabilire relazioni con altre donne nella stessa situazione. Se ne ricava subito aiuto e forza, e insieme ad altre si acquisisce più potere di incidere sulla realtà. Queste relazioni fondate su interessi comuni, sul sostegno e lo scambio reciproco, possono essere un moltiplicatore di forza, uno strumento potente di cambiamento per tutte.

(Sul blog La vie en rose, 13 maggio 2009)

Articoli: Donne e potere in azienda: Tutta un'altra storia


Quando si parla di come le donne possono o dovrebbero organizzarsi nel modo del lavoro per acquisire potere si parla in genere di lobby femminili o di networking. In realtà in Italia troviamo dei veri network solo in poche multinazionali dove questa struttura è quasi prevista dall'organizzazione aziendale. E quanto alle lobby, troviamo organizzazioni con caratteristiche di networking e lobbystico, o gruppi costituiti attorno a persone rilevanti per la loro attività su questi temi. Ma sono fenomeni limitati, a volte piuttosto elitari. Dunque, invece che partire da qui, mi sembra utile vedere come si manifesta per le donne il rapporto con il potere in azienda. Perché è questa la base per ogni ragionamento su questo tema.
Prendo alcuni spunti da una mia ricerca recentemente condotta.
Il cattivo o inadeguato rapporto con chi ha il potere, con i giochi di potere, con le dinamiche 'politiche' è uno dei limiti ed errori principali che le donne si attribuiscono rispetto al loro lavoro.
Ignorare, non prestare attenzione, non saper vedere e gestire i rapporti di potere e politici : c'è in generale una difficoltà delle donne a capire i meccanismi non espliciti del potere. Forse legata alla minor pratica di queste cose, forse all'attitudine a lavorare badando alla sostanza del lavoro piuttosto che al modo con cui costruire e tutelare la propria posizione.

Sono abituata a concentrarmi troppo sui risultati rispetto ai rapporti di potere o a quelli politici. Ma questo è un limite grosso e sto cercando di superarlo”. “Il trucco è capire le dinamiche che stanno dietro i comportamenti lavorativi, che sono ancora molto maschili. Bisogna essere più realiste del re: agiremo in un contesto costruito da uomini, che sono diversi da noi. E’ ovvio che hanno costruito tutto a loro immagine e somiglianza. Hanno avuto secoli per organizzarsi. Ma se vogliamo giocare dobbiamo conoscere bene le regole e soprattutto quelle non scritte”. “Avevo un capo con grande esperienza e osservandolo ho capito come gestiva le persone e le situazioni. Strategia, difesa ed attacco. Ho imparato a essere più politica”.

Dietro a questa difficoltà di vedere e gestire adeguatamente le relazioni e le dinamiche di potere in gioco, viene in evidenza un elemento cruciale, che ci riporta al problema delle lobby. E' il problema dell'appartenenza. O meglio, per le donne, della loro esclusione dai gruppi e dai luoghi dove questi giochi vengono agiti, della non appartenenza al gruppo dominante, che storicamente è maschile.

“Ai vertici sono ancora uomini che privilegiano gli uomini”.
Le donne restano di fatto escluse anche dai circuiti informali maschili. Per l'inesperienza nel curare questo tipo di relazioni, o per la loro obiettiva impossibilità di occupare per questo scopo altro tempo di non-lavoro (come bighellonare al bar per uno spensierato aperitivo mentre i bambini a casa aspettano la cena?). O perché questi circuiti si strutturano attorno a rituali tipicamente maschili (come partecipare ad una partita di calcio Marketing contro Venditori e relative goliardate di spogliatoio?) .

“Per certo so di non aver potuto curare quell’attività di relazione, di legami 'da sottobosco' che i giovani rampanti curano con attenzione maniacale. Alla fine della giornata io avevo i miei ragazzini, e non potevo destinare altre risorse al lavoro. Ho capito dopo che la presenza in situazioni informali, collaterali, con gli attori significativi che compongono la rete professionale è di particolare importanza. Queste frequentazioni 'altre' fanno parte di uno stile manageriale che accresce la sua influenza attraverso situazioni e luoghi fuori dagli ambienti ortodossi del lavoro.” “Quando un personaggio importante per l’organizzazione è venuto a far visita al nostro stabilimento, ho partecipato alla riunione e mi sono detta disponibile anche per la cena dopo il lavoro. A questo proposito qualcuno mi aveva chiesto se non preferivo andare a casa da mio marito. Sapendo che quella sera si sarebbero giocate partite informali importanti, ho detto che non c’era nessun problema. Però il meccanismo di esclusione era già scattato. Ho dovuto neutralizzarlo.”

Essendo fuori da circuiti di potere o di appartenenza, è più difficile per le donne avere adeguati strumenti per definire strategie di sviluppo o di difesa: avere segnali tempestivi, informazioni su cosa sta succedendo e perché, quali sono i giochi in atto. E poter cercare appoggi e sostegno.
Ciò che rende più difficile migliorare o difendere la propria collocazione sono proprio i meccanismi non trasparenti con cui vengono prese le decisioni e le loro motivazioni. Perché tutto avviene in luoghi e gruppi in cui le donne non ci sono, a cui non appartengono, in cui non possono esercitare alcuna influenza. Solo quando il meccanismo e le ragioni sono chiare ed esplicite è anche possibile agire e reagire in modo adeguato.
Da questo deriva tutta la difficoltà di smascherare come avvengono le scelte discriminatorie. L'appartenenza è probabilmente il principale aspetto intangibile che fa funzionare il 'soffitto di vetro'. Ed è probabilmente un aspetto cruciale nell'esercizio del potere.

“Mi sentivo all’apice del successo professionale. Come un fulmine a ciel sereno, il mio capo mi comunica che, a seguito di una ristrutturazione, la mia posizione organizzativa veniva cancellata. Per sei lunghissimi mesi non è stato possibile parlare con lui né con nessun altro. Non sono mai riuscita a sapere davvero cosa fosse capitato”. “Ho subito un’azione fatta di esautorazioni, accordi presi su altri tavoli di cui tutti sono a conoscenza all’infuori di te. Ho delle responsabilità, soprattutto per non aver fatto un’analisi realistica delle condizioni in cui mi muovevo, per non aver preso le misure dei giochi di potere, l’ignoranza di alcune dinamiche. Non possiamo permettercelo”

C'è dunque consapevolezza che non si tratta solo di sentirsi soggettivamente più o meno desiderose o capaci di attivare relazioni con le persone di potere. Ma che bisogna comunque acquisire la capacità di fare i conti con le strutture e i rapporti di potere, e di acquisire potere proprio.
Ma con quali strumenti? In realtà non ci sono pareri convergenti, non c'è nemmeno una tendenza dominante.
Quello che sembra interessante, per tornare al tema delle lobby, è che queste non sono molto citate tra gli strumenti auspicati. Certo, vengono considerate e da alcune ritenute positive, così come altri strumenti che possono cambiare i rapporti di forza: soprattutto, e con più rilievo, le 'quote rosa'.

“Le donne non sanno fare lobby e non votano le donne : è un problema di autostima che porta ad avere poca fiducia nel tuo stesso genere e ad affidarti al 'maschile' nelle decisioni di come deve svilupparsi ed essere gestita una società”. “Fino a poco tempo fa pensavo che le 'quote rosa' fossero uno strumento umiliante, che potevamo farcela con la nostra competenza, la nostra grinta. Oggi non lo credo più. Bisogna fare pressione in tutti i modi possibili perché venga garantito l’accesso delle donne alle posizioni di vertice. Non c’è altro modo per garantirsi la massa critica necessaria per cambiare veramente le regole”.

In questo atteggiamento c'è certamente in parte una scarsa familiarità con gli strumenti per organizzarsi rispetto al potere. Ma c'è probabilmente un altro segnale: che le donne non si trovano a proprio agio in organizzazioni che funzionano con la stessa logica del potere maschile, una riproduzione per donne di strutture nate dagli uomini e per gli uomini. Basti pensare al prototipo storico delle lobby professionali, la massoneria, un mondo di 'fratelli' dove le donne non sono ammesse.
E credo che conti anche un altro fattore. Le lobby o associazioni grandi e piccole che oggi esistono sono abbastanza lontane e poco influenti sulla concreta vita di lavoro della grandissima parte delle donne in un iter di carriera. Se sono grandi lobby, possono essere strategicamente utili per la contrattazione a livello politico, per esempio, o come rete di sostegno e promozione reciproca, ma nell'ambito di ristretti gruppi di appartenenza. Così come avviene con altri gruppi di appartenenza femminile.
Si pensa spesso che nessuno strumento sia inutile, ma c'è una certa freddezza rispetto a queste forme organizzative. Perché, pensando al loro qui ed ora, alla loro condizione individuale specifica, le donne sentono il bisogno di altri approcci, più utili per sé subito, più vicini ai propri problemi immediati, più consoni al loro modo di essere. Tanto che, in molti casi, le donne non pensano a strumenti collettivi, ma a continuare il proprio percorso da sole, dotandosi di sempre maggiori strumenti di competenza e capacità. Ma molto frequentemente lo strumento di cui le donne sentono più il bisogno è la relazione con le altre donne nella stessa situazione. E' questo che dà uno strumento apparentemente semplice ma importantissimo: non essere e non sentisi sole, non sentirsi più l'unica inadeguata e incapace. Perché questo è causa di grande sofferenza, di sfiducia in sé stesse e senso di impotenza.

“Mi è mancato l’aiuto di una donna con esperienza, che sa riconoscere certi segnali molto prima di te, che sei maledettamente ingenua, che non sai dare il giusto peso alle cose”. “ A volte mi sono sentita sola. Non ci sono molte donne nell’organizzazione al mio stesso livello con cui confrontarmi e parlare. Recentemente ho fatto un’esperienza di training con una professionista senior. Che bello poter parlare deigli stessi problemi e difficoltà! Lei capiva al volo tutto, per esserci già passata”. “Sarebbe molto utile un mentoring di un’altra donna, esperta. E' importante avere uno spazio per esaminare da vicino le dinamiche dell’esercizio del potere. Penso soprattutto a strumenti per capire, riconoscere certe situazioni, uscendo dall’ingenuità. Per superare il tremore emotivo che taglia il fiato e recuperare capacità di analisi, e di risposta”.

Potersi confrontare con altre donne, rispecchiarsi nelle vicende di altre, fa prendere consapevolezza che i problemi, invece, sono comuni. E si può apprendere come affrontarli dallo scambio di esperienze, si può prendere forza dal sostegno reciproco. Che non significa vicinanza amichevole, ma costruire relazioni fondate su interessi comuni e azioni comuni, che possono diventare strumento potente di un altro potere.
Qui bisognerebbe aprire dunque un altro capitolo, quello dei rapporti tra donne sul lavoro. Perché il rapporto con il potere aziendale e la costruzione di un proprio potere per la maggioranza delle donne sembra passare da qui, piuttosto che dall'appartenenza ad una lobby tradizionale.
E questa è tutta un'altra storia.

Luisa Pogliana

(Pubbicato su Direzione del personale, n° 3, settembre 2008)

Recensioni: Il come e il cosa


Abbracciare l'orso

di Giovanna Galletti, Gianna Mazzini e Luisa Pogliana
Guerini e Associati, Milano 2008

COSA
Sono andato a visitare il nostro call center del Veneto. Quando sono entrato non potevo credere ai miei occhi. Il direttore aveva fatto sistemare in un angolo un gigantesco orso di peluche. A cosa serve? Gli ho chiesto. Quando le persone non ce la fanno più, possono andare ad abbracciare l’orso, mi ha detto. Ma funziona? E lui: guardi. Ero allibito, ma effettivamente ogni tanto qualcuno si alzava e andava ad abbracciare l’orso.

Siamo partite da un’osservazione semplicissima e cruda: il mondo del lavoro prevede che, chi entra a farne parte, metta via sentimenti e affetti. Prevede che una persona non li porti con sé quando lavora, in nome della razionalità, del rigore impersonale del business. Affettività, sentimenti ed emozioni devono restare fatti privati.
Ma il mondo del lavoro non è affatto come lo raccontano, cioè un’applicazione rigorosa di tecniche e decisioni prese con freddezza. In realtà non c’è nulla come il business per scatenare passioni forti. L’affettività, le emozioni sono sempre al lavoro. E’ impossibile senza.
Perché siamo, tutti e tutte, persone intere.
Dunque gli affetti, cacciati dalla porta, rientrano dalle finestre e cercano di farsi spazio come possono. Spesso in maniera confusa e disordinata. Magari ci si innamora del capo, del collega, della collega. Oppure non si riesce a dimenticare quello che è successo a casa, con la moglie, il marito, i figli. I compagni.
Anche se non si vedono, esistono milioni di fili fra noi.
Invisibili come le onde radio, come le traiettorie degli uccelli o le strade dei pesci. Noi viviamo tutti immersi in una rete invisibile di relazioni con le persone con le quali lavoriamo o alle quali il nostro lavoro si rivolge.
Le relazioni sono uno strumento potente.
Perché muovono energie che ci sono, ma dormono, risvegliano capacità latenti.
Perché possono trasformare gli ambienti senza distruggerli. Possono modificare, inesorabilmente, ogni struttura, ogni rigidezza, ogni gabbia.
Le relazioni hanno confini più larghi di quanto possiamo immaginare. Troppo spesso riduciamo i sentimenti ad una gamma piccina, chiusa, finita, che vede nell’amore e nell’amicizia, comunemente intese, l’unica possibilità di esistere. Ma ci sono relazioni che non possiamo inquadrare, che non rientrano nelle caselle. Tante testimonianze, raccolte nel libro, ce l’hanno raccontato.
Il lavoro, anche quello brutto e avvilente, contiene una possibilità: noi l’abbiamo chiamato ‘eros del progetto’. Lavorare allora può provocare l’amore, non solo nel senso, noto, di favorire flirt e relazioni amorose, ma anche e soprattutto nel senso di muovere energia e sviluppare passione.
Il lavoro può accendere, cioè, parti che normalmente si accendono con l’amore.
Il libro parla di questo. Mette l’accento sul ‘progetto di vita’.
Forse non c’è l’abitudine a pensare a sé con un progetto di vita che non sia quello comunemente inteso: la carriera, il guadagno, la famiglia. E’ normale che alla domanda: qual è il tuo progetto? Si risponda: vorrei diventare questo o fare quest’altro, o avere una famiglia… Ma il progetto di vita come lo abbiamo inteso noi, non ha a che fare con i temi, (carriera, famiglia, denaro) ma con un modo. Perché ogni persona, anche se non ne è consapevole, anche se lavora come casalinga o in un contesto non organizzato, sta continuamente lavorando all’opera di sé, alla costruzione della propria identità. Questo può essere davvero un lavoro appassionante.
Il progetto di vita è quella particolare caratteristica del nostro essere che, quando vive, produce energia, piacere. Non è un solo mestiere, anche se spesso la si scopre facendo un mestiere. Non è tanto il ruolo ricoperto, anche se anche lì può essere messa in gioco. E’ piuttosto quella nostra specificità, quell’insieme di caratteristiche, che, quando abbiamo la capacità di mostrarle, produce un brividino, produce un piacere senza nome.
Perché, per ognuno, ha un nome diverso. Scovarlo è indispensabile per riuscire a provare piacere qualunque lavoro si faccia e persino quando il lavoro non ci piace.


COME
Quando l’editore ci ha proposto di scrivere questo libro, abbiamo accettato subito anche se il motivo si è chiarito strada facendo: il tema ci toccava più di quanto ci rendessimo conto.
Abbiamo scritto scegliendo una scrittura pensata e realizzata insieme.
Lavorare in tre non è stato facile. Sempre più spesso, in questo tempo di conflitti, ci si sceglie per somiglianze. Troppo più facile e incoraggiante dire “anche per me funziona così”, “è proprio vero quello che dici”. Molto più faticoso provare ad assumere, anche per un attimo, il punto di vista di qualcuno che non ti somiglia e che per età o per esperienza si è fatto un idea del mondo diversa dalla tua. E noi siamo tre donne con storie, esperienze e formazioni diverse.
Luisa, che conosce i meccanismi delle organizzazioni d’impresa per essere stata dirigente di una grande azienda per molti anni; Giovanna, economista che ha volutamente evitato l’inserimento nelle logiche aziendali scegliendo prima la libera professione e poi l’impresa in prima persona; io, regista, che cerco di guardare la realtà spostando continuamente il punto di vista.
Nella prima fase è stato forte lo sforzo di adattamento: abbiamo attraversato i conflitti, abbiamo gestito le rigidità di pensiero, quando rischiavano di diventare muri.
Abbiamo progettato le tappe del percorso, abbiamo fatto programmi. Ma il tempo realmente produttivo è stato quasi sempre il tempo dell’istante proficuo: certe cose, spesso le migliori, accadono solo in certi momenti, e accadono solo se le lasciamo accadere.
Riconoscere, per ciascuna, le capacità delle altre non è stato esercizio sempre facile.
Ma sapevamo che imporre una misura rigida al contributo di ognuna ci avrebbe allontanato dallo scopo. Per questo abbiamo lasciato che le specificità emergessero, e su quelle ci siamo basate.
Abbiamo proceduto per approssimazione e aggiustamento, senza ansia di perfezione.
Abbiamo accettato l’imperfezione. La perfezione è un modello astratto al quale adeguarsi. La perfezione non può essere amata. Quello che facciamo sì.

Gianna Mazzini

(Pubblicato su Persone&Conoscenze, 2008)

Articoli: Diversità, ingiustizia, regole


Della diversità si parla molto, moltissimo di questi tempi. Soprattutto delle diversità di genere. I convegni e i libri si moltiplicano, gli esperti e i consulenti hanno molto lavoro: la diversità è l'ultimo cavallo di battaglia del politicamente corretto e l'ultima qualificazione distintiva dei guru aziendali. Perché allora i cambiamenti di cultura e prassi aziendale su questo terreno sono così irrilevanti?

E' una vita che ci rompete i coglioni
Qualche giorno fa ho incontrato ai margini di un convegno un ex collega, in passato membro del board dell'azienda dove entrambi abbiamo lavorato. Ci scambiamo qualche informazione su cosa stiamo facendo ora, e io cito una persona con cui ho un ottimo rapporto professionale. 'E' bravissima -gli dico- la migliore che abbia incontrato in questo lavoro. Se non fosse una donna avrebbe fatto ben altra carriera in quell'azienda'.
Ed è vero. C'è almeno un'occasione ben nota a chi lavorava in quell'ambiente allora, in cui le è stato preferito un uomo che professionalmente e intellettualmente non le arrivava nemmeno alle ginocchia. Ma la cultura aziendale trasmessa ad alta voce in una riunione dal direttore generale dell'epoca non lasciava dubbi: 'Mai scegliere una donna anche se è al massimo delle capacità. Ricordatevi che prima o poi una donna piange'.
Il mio ex collega a questo punto sbotta, con tono scherzoso ma in realtà con convinzione: 'Ancora con queste storie, non se ne può più, è una vita che ci rompete i coglioni' .
Ma il punto non è questo. Il punto è che io, orribile a dirsi, mi sento annaspare, mi sento un pesce che apre la bocca e ne escono bolle d'aria. Cerco di dimostrare quanto sia vera la mia affermazione nel caso specifico, mi manca solo di gridare che ho le prove, ma mi sento le armi spuntate.
Perché il problema, da quando le donne hanno messo piede in azienda e ancora oggi, è che i trattamenti discriminatori che le riguardano non sono certo ufficialmente annunciati, non sono nemmeno motivati, nessuno si preoccupa di giustificarli, non avvengono con meccanismi trasparenti, non hanno ragioni di vantaggio aziendale che li spieghi.
Al contrario, avvengono nella totale arbitrarietà, spesso contro ogni razionalità, con dinamiche opache. E quando una cosa non esiste ufficialmente, non si sa come avviene, dove, perché, per decisione di chi, semplicemente non esiste. Non è vera, non è dimostrabile, non è denunciabile, non si può provare, non si sa come contrastarla.
Eccolo qua il famigerato 'soffitto di vetro', così battezzato oltre vent'anni fa per indicare quella cosa efficacissima nel bloccare l'ascesa delle donne alle cosiddette posizioni apicali, ma che apparentemente non esiste, perché non si vede.
Comunque, in quel momento, di fronte all'ex collega che stroncava con aria pragmatica il 'solito rivendicazionismo femminista', di fronte a me che mi trovavo a mani vuote sapendo invece di avere ragione a piene mani, mi è montata una rabbia, che non è vero che acceca, la rabbia illumina. E mi sono detta, e ho detto: Il problema è che i coglioni su queste cose non ve li abbiamo mai rotti seriamente, mai quanto sarebbe stato giusto e necessario.
Mi sono vista passare rapidamente in testa tutta una serie di lavori, discussioni, convegni, articoli scritti, documenti preparati per usarli dentro e fuori l'azienda dove ho lavorato. Tutti che trattavano i fondamentali aspetti per cui non si può continuare a tenere le donne in buona parte fuori dall'attività lavorativa e fuori dai posti e luoghi di responsabilità. Nell'interesse certo delle donne, ma anche delle aziende, dell'andamento economico, del paese. E sono tutte argomentazioni vere.
E' vero che un paese dove l'occupazione femminile è ai livelli più bassi d'Europa è un paese che lascia fuori dalla costruzione dello sviluppo economico la stragrande maggioranza della sua popolazione. Infatti si vede in quale situazione economica è andato a cacciarsi. Con danno di tutti.
E' vero che c'è uno spreco vergognoso di risorse. Le donne arrivano al mercato del lavoro con preparazione e qualificazione molto più elevate degli uomini, ma vengono falcidiate, nella loro crescita a favore di uomini meno preparati. Si buttano talenti preferendo affidare il proprio sviluppo alla mediocrità.
E' vero che le donne sono intralciate nel loro cammino al lavoro da carichi famigliari antichi come il mondo ma in un mondo dove le cose non possono essere più così. Eppure si considera naturale che le donne abbiano un monte ore aggiuntivo di lavoro gratuito per gestire la famiglia, qualunque sia il loro lavoro e il livello professionale raggiunto, o si ritiene che le donne debbano limitare o rinunciare ad una carriera per occuparsi della vita famigliare. Invece di fornire un'adeguata organizzazione aziendale e strutture sociali perché non debbano dimezzarsi la vita o raddoppiare la fatica.
Quanto alla diversità, ci si riempie ormai così tanto la bocca di questa parola che ne facciamo un altro feticcio del politicamente corretto. Ma la cultura e le prassi informali delle aziende continuano in modo non sensibilmente dissimile.
In prevalenza, almeno da noi, quando si parla di diversità la differenza a cui si fa riferimento è quella di genere. Il tema, cominciato in sordina diversi anni fa, è oggi molto di moda.
E' arrivato come al solito dall'America, dove il nome inglese di diversity management conferiva subito la dignità e l'accettabilità di un nuovo aspetto delle dottrine organizzative e manageriali.
Molte parole si sono spese sugli stili di leadership femminile, così diversi e così più adatti alle esigenze dell'azienda oggi. Sembrava che le aziende non dovessero fare altro che accoglierli per trarne vantaggi. Ma non abbiamo avuto, in realtà, molte occasioni in più di vedere all'opera la leadership femminile.
Le teorie aziendali sono spesso agili nel recepire molte cose, anche perché queste teorie si vendono sul mercato, e se c'è una novità si vende meglio. Molto dunque si è parlato della ricchezza che viene dalla diversità delle donne, portatrici di visione nuova, di intelligenza emotiva, di un modo di vedere e sentire la realtà con uno sguardo diverso, e che quindi portano un incremento di conoscenza e capacità aggiuntive negli approcci al lavoro e alla managerialità.
In più, in Italia, da vent'anni il pensiero della differenza sessuale è entrato a far parte di una cultura femminile piuttosto diffusa in un certo tipo di donne, e non è rimasto certo estraneo alle riflessioni sul lavoro delle donne.
Ciononostante, la cultura aziendale , nella maggioranza dei casi, di fatto sembra continuare ad avere un solo tetragono modello di riferimento, e a funzionare con quello.

Ragionevolezza e insofferenza
A questo punto ho avuto una reazione di insofferenza.
Basta, basta fare le persone ragionevoli e giudiziose, le persone intelligenti e convincenti, che vedono gli interessi delle donne sotto la luce degli interessi aziendali prima ancora che sia l'azienda a vederli, gli interessi del paese di cui al paese sembra non importare nulla. Torniamo a dire, prima di tutti questi discorsi responsabili sul vantaggio comune, torniamo a dire che per noi è una questione di giustizia. Diciamo che nel porre questi problemi noi pretendiamo innanzitutto che venga riconosciuto, in generale e a ogni individuo, il valore del proprio diverso modo di essere, e riconosciuto nei termini di praticare e premiare e remunerare un diverso approccio al lavoro un diverso modo di essere al mondo. Noi pretendiamo un trattamento di equità .
E sento il bisogno di tornare a dire chiaramente che, prima di tutto, ciò che mi ha portata a scrivere e a fare tutto il resto, a comportarmi in modo che in azienda qualcosa cambiasse è stata una cosa più più concreta e più potente di qualunque teoria economica: io ho spesso sentito che mi veniva tolta la mia libertà di essere quello che sono e di fare quello che desidero e posso. Mentre questa possibilità per altri era normale diritto acquisito. E io questa cosa non la voglio per me, non la voglio più per nessuna.
Intendiamoci, è tutto vero. E tutto serve. Io credo che non ci sia una sola azione superflua da tentare, una sola pratica da cui prendere le distanze quando si tratta di provare a cambiare la evidente iniquità che segna la presenza femminile sul mercato del lavoro.
Anche perché le aziende cambiano le loro politiche e le loro cultura solo se capiscono che ne hanno un vantaggio.
Queste sono tutte argomentazioni vere e importanti. Più che sufficienti se qualcuno volesse capire.
Cosa manca allora?
Qualche episodio aiuta a vedere meglio la questione.
Per i primi numeri proprio di questa rivista avevo preparato alcuni contributi che affrontavano il problema del trattamento penalizzante per le donne nel mercato del lavoro, e anche sulla diversità come ricchezza (che in quel momento non era ancora diventato un tema 'in').
L'ottica era esattamente questa: l'interesse generale e l'economicità complessiva.
Un amico, dopo averli letti, mi disse: 'ah, l'hai messa giù così per fargli passare le cose in modo più digeribile'. Era, per lui, un'astuzia.
Anche quel momento per me fu illuminante. Pensai che certo appare molto più serio, maturo, ragionevole, costruttivo e accettabile dire: ehi, guardate che non stiamo rivendicando, non stiamo recriminando, stiamo parlando anche nel vostro interesse, vedete come ci facciamo carico dei destini sociali?
Avevo detto cose che ritenevo giuste e razionali. Sentivo però che mi ero tenuta a freno.
Allo stesso modo, nell'ultimo convegno sulla diversità a cui mi sono trovata a partecipare, stavo ascoltando l'intervento di un relatore che non sembrava essersi mai sentito diverso in nessuna situazione, ma piuttosto pietra di paragone. Mi è venuto di nuovo un moto di insofferenza.
Ormai siamo tutti intelligenti, ed evoluti, e buoni, mi sono detta. Sappiamo tutto sulla differenza di genere -e d'altro- e sul suo valore, sappiamo che va accolta e va valorizzata. E così in realtà, confinata ai discorsi, paghiamo il tributo formale e poi via come prima.
(Come quando anni fa partecipai ad un seminario aziendale obbligatorio sul 'pensiero laterale' -la moda del momento di allora-. Per un giorno il gruppo dovette allenarsi a pensare diversamente, a trovare una propria originalità, un'insolita visione. Il giorno dopo eravamo in riunione, tutti allineati e coperti ad aspettare il verbo del capo, così giusto che nessuno osava non essere d'accordo. Anche perché se qualcuno dissentiva veniva stroncato. Il corso sul pensiero diverso non poteva cambiar niente, né ci si aspettava che lo facesse: era stato proposto e gestito nell'ambito rigoroso della cultura aziendale omologata e indiscutibile, e lì doveva restare).
E' così che si depotenzia la carica di cambiamento che la differenza contiene in sé, che viene dal suo profondo concetto di equità: tutti gli individui hanno un valore, il loro valore, non ci sono categorie che per definizione valgono più delle altre e costituiscono il modello.
Ma questo lo capisce, lo sente e vuole che gli venga riconosciuto solo chi è differente dal modello, e come tale viene definito e trattato. Definito in genere negativamente e trattato quindi peggio degli altri. Ingiustamente.

Diversità e regole
Parlare della diversità senza darle il corpo, la concretezza e le realtà di una vita vera è come se si volesse farsi accettare togliendo la potenzialità di rottura di un sistema dato che la diversità contiene.
Per questo ho sentito la voglia di dire chiaramente come a me interessa parlare di diversità. Ovvero di cosa vuol dire essere donna e lavorare in un'azienda, essere donna e fare o cercare di fare una carriera in azienda, quando si sceglie o ci si trova a farlo.
Per una volta diciamolo chiaramente, non per è il bene dell'azienda, che così si arricchisce e diventa più competitiva. Prima di tutto è per il bene mio, per il bene delle donne.
La cosa che sento più importante è il fatto che, prima di essere teorie e analisi sociali e riflessioni economiche, per le donne il problema delle carriere femminili in azienda e della loro diversità è realtà quotidiana, personale e concreta. Con tutte le sue soddisfazioni, ovviamente, ma certo con i suoi a volte cari e soprattutto non motivati prezzi.
Nella mia storia, normale storia di una che ha passato la vita lavorando in azienda, diventando dirigente, ho vissuto e visto vivere tutte quelle assurde disparità di trattamento di cui si parla in innumerevoli studi: gli ostacoli aggiuntivi, gli stereotipi, i soffitti di vetro e i ghetti di velluto, le retribuzioni, i riconoscimenti e le opportunità iniquamente dispari, la cultura aziendale che penalizza le donne.
La cosa decisiva, mi pare, è parlare partendo da sé, assumere e dire la propria storia perché è così che si prende consapevolezza della realtà della differenza in azienda. E' decisivo il fatto di avere sperimentato, vissuto personalmente cosa vuol dire essere una donna in un'azienda. Sapere cos'è la nostra diversità agli occhi di questa azienda, che per storia e realtà consolidata è una costruzione sociale maschile.
Ecco qua una brevissima, rapidissima, superficiale raccolta di esempi sulla diversità delle donne vista con gli occhi dell'azienda media. Ovvero degli uomini che in strabordante misura ne sono a capo e ne decidono le politiche.
Le donne sono deboli, comunque, di fronte al codice della durezza che è il primo codice etico e comportamentale di un'azienda.
Le donne possono anche essere manager, ma restano prima di tutto donne. Le donne sono emotive, e le emozioni contrastano con il codice della razionalità, l 'unico ammesso ufficialmente . A meno che non sia un capo importante a 'sentire di pancia' che è giusto fare in un certo modo, allora non servono motivazioni logiche e stringenti.
Quindi le donne piangono. Come ho già mostrato prima, le lacrime non possono esistere nel tempio dei duri. Poco importa se poi gli uomini, non potendo dare sfogo altrimenti alle emozioni, si incazzano fortemente, a proposito e a sproposito, facendo danni anche seri a cose (il business) e persone. Ma questa non è emotività, è una prova di carattere.
Le donne sono vulnerabili agli affetti e attente alle persone. Che con i dipendenti e i colleghi non si deve e non si può. Si ottiene di più (se non altro per il proprio senso di potenza) con la paura e l'arbitrio.
Le donne prima o poi, oltre a piangere, fanno bambini, e non è questione di ridimensionare un po' il lavoro per un periodo transitorio: l'azienda richiede dedizione totale e assoluta e sempre. Che sia davvero necessario o no.
Le donne, insomma, non hanno i coglioni. Li rompono solo a chi ne è portatore ufficiale, i capi, con la pretesa di ambire a posti da uomini (e così torniamo all'inizio di questi pensieri).
Non si tratta di piccole caricature per ridere. E' purtroppo realtà, non quella realtà aziendale aperta, consapevole, intelligente, moderna che si mostra nei convegni e nelle riunioni ufficiali, ma quella che vediamo in atto nei nostri uffici.
E qui non è questione di vittimismo. Tutto questo è reale e ci costa fatiche supplementari, ma non ci ha mai impedito di andare avanti nel nostro percorso, anzi, ci piace se ci porta dove noi vogliamo, o anche se ce lo impedisce ma intanto noi proviamo, e cresciamo.
Bisogna piuttosto capire da cosa nasce tutto questo, e perché la differenza delle donne, di fatto, è ancora così tanto segnata come mancanza e inadeguatezza, perché si ha così bisogno, quando non è possibile ignorarla, di arginarla e tenerla sotto controllo.
Perché la diversità è dirompente, la diversità scardina un modo di regole date. Soprattutto in azienda.
Il mondo del lavoro, storicamente, è stato costruito dagli uomini, che ne hanno definito le regole secondo il loro modo di essere e i loro bisogni. Ma oggi, con la presenza normale delle donne nel lavoro, anche nei livelli direttivi, queste regole appaiono chiaramente non neutre e non universalmente valide, come invece si continua a presentarle.
Le donne portano anche nel lavoro la loro differenza: fatta di affetti ed emozioni, diverse capacità e diverso modo di pensare e sentire, diverso modo di concepire il mondo e il lavoro, le relazioni e le persone, diverso modo di vivere la vita, che per loro è sempre intera, quella dentro e quella fuori dall'azienda non scisse a compartimenti stagni come facilmente avviene per gli uomini, socialmente sempre centrati fondamentalmente sul lavoro. Ma non è qui il momento di approfondire la differenza femminile in tutta la sua novità e ricchezza.
Qui serve capire che la diversità femminile porta a sovvertire i codici, l'organizzazione del lavoro, le regole, i tempi e le modalità di relazione.
Facciamo solo un esempio, il più comune e comprensibile. Le donne, in maggioranza, nella loro vita devono costantemente farsi carico di molti compiti, vivere molti ruoli diversi. Cosa che non avviene agli uomini. Per le donne il tempo e l'organizzazione del tempo è la risorsa più preziosa Ma in azienda, lo sappiamo bene, un codice diffuso è quello di lavorare a oltranza, spacciando la quantità per qualità, e denunciando incapacità di organizzare più efficientemente l'attività. Ma l'importante è farsi vedere in ufficio fino a tardi, molto tardi, e poi magari bere qualcosa tra colleghi o con il capo. Una donna, se mai fosse attratta da tali modi di sprecare il tempo, comunque sa che deve occuparsi dei figli, per esempio, e sa che una riunione programmata o spostata alle cinque mette in crisi l'organizzazione famigliare. Ed ecco che l'insensatezza di questo modo di lavorare ha cominciato ad essere messo in discussione (in alcune aziende avanzate già si adottano orari totalmente flessibili secondo le necessità personali). Ma anche qui non andiamo oltre con gli esempi.
Piuttosto, si arriva a capire perché tutti questi corsi e convegni e libri sulla diversità incidono così poco sul cambiamento, sono così poco efficaci nel dare valore, valore riconosciuto nei fatti e non a parole, alla diversità.
Perché i discorsi formali e istituzionali vedono e progettano un 'accoglimento' della diversità in azienda solo negli aspetti e nei modi che possono essere integrati nelle norme e nei codici aziendali senza cambiarli, senza sconvolgerli. Non scardinano le regole ma le confermano ponendo comunque i limiti dentro cui deve stare la diversità.
Per questo nella vita reale di questi discorsi non ce ne facciamo proprio niente. Quello che noi possiamo fare è non accettare che le regole siano comunque più forti, che si debba inevitabilmente adattarsi (soprattutto ora che nel mondo del lavoro non siamo più così poche).
Quello che possiamo fare è portare e fare vivere la nostra differenza, darle noi per prime valore e fare riconoscere questo valore.
Uscire dalle regole, cambiare le regole è l'unico modo di tenere davvero conto della diversità.
Se no, è un modo per tenerla imbrigliata.

Luisa Pogliana

(pubblicato su Persone&Conoscenze n° 38, aprile 2008)