sabato 26 febbraio 2011

LE QUOTE E CHI PORTARE IN QUOTA. Donne ai vertici: Ritorniamo su una questione di attualità

Poco più di cinquant'anni fa la corte costituzionale accoglieva il ricorso di Rosanna Oliva e apriva le carriere in magistratura, nella prefettura e nella diplomazia anche alle donne. Sì, perché allora alle donne era sbarrato l'accesso a queste professioni. Rosanna Oliva voleva accedere al concorso per diventare prefetto e fu respinta, ma non si fermò. Noi le dobbiamo un atto di giustizia e un'apertura di libertà per tutte noi donne, non solo in quelle carriere. Il valore concreto e simbolico di quell'atto è enorme: una donna che si è presa sul serio, e ha saputo dire “perché io no?”. Agendo di conseguenza e cambiando, in questo modo, un pezzo di realtà. Bisogna ricordarselo oggi. Perché non è ancora vero che tutte le carriere sono realmente aperte alle donne. O più precisamente: le carriere sono aperte, ma le posizioni di vertice no.

Proprio in questo periodo in Italia sta seguendo il suo iter parlamentare una proposta di legge che impone di riservare alle donne un terzo dei posti nei consigli di amministrazione. Cosa che è già avvenuta in molti paesi europei, con quote elevate in quelli scandinavi, e sta ora avvenendo anche in Francia e Spagna. Credo che la spinta in questa direzione non venga tanto da un senso di equità verso le donne, ma da opportunità economica. E' noto che le aziende con una maggiore presenza femminile ai vertici hanno risultati migliori, e la ragione c'è. Già a fine anni 80 tre grandi multinazionali, accentuatamente male oriented, fecero insieme un convegno su un aspetto: la crisi che stavano attraversando era dovuta anche al fatto che i loro vertici erano monoculturali ,“male, white, blue suited, like minded”. La Norvegia, nell'imporre quote femminili del 40% nei cda di certe aziende, motivò il provvedimento per voce del prof. Norman (ex ministro con studi a Yale e al MIT). In sintesi, diceva, le aziende norvegesi non sono in grado di creare nuovi prodotti e nuovi business, perché i consigli di amministrazione hanno una composizione troppo omogenea: stesso background, stessa formazione, stesse reti di relazioni e stesse idee. Una maggiore presenza di donne può portare un contributo alla innovazione, derivante dalla diversità di competenze ed esperienze di vita, compreso il fatto di fare e allevare i figli.

Sono argomentazioni ampiamente diffuse a proposito di diversità. Per esempio, è uno degli argomenti della teoria nota come womenomics, piuttosto di attualità. Che possiamo ricordare in rozza sintesi: la valorizzazione della professionalità femminile a tutti i livelli è utile al business perché porta una visione diversa e capacità aggiuntive, più in grado di capire il mercato e di gestire le aziende in situazioni complesse. Mckinsey ha appena pubblicato una sua ricerca internazionale che mostra come le aziende con migliore presenza femminile al top hanno avuto risultati (Ebit) superiori del 56% a quelle solo maschili. Perché “sono le squadre di alta direzione con stili di leadership disomogenei, approcci strategici di business differenti tra loro e in ultima analisi diversity tutelata a fare la differenza nelle aziende”. Oggi in particolare, a causa della crisi economica, che richiede all'azienda cambiamenti e idee nuove, a livello internazionale c'è un clima favorevole ad accogliere questo pensiero. Soprattutto nelle multinazionali sembra esserci una richiesta di diversità. Tanto che la borsa premia l'attenzione al genere nelle società.

Tornando a noi, la legge in discussione ha già creato sollevazioni contrarie da alcune componenti imprenditoriali, e il fatto che si tratti di un'operazione a costo zero, dice molto su queste resistenze. Non sappiamo -nel momento in cui questo articolo viene scritto- che fine farà questa legge. Ma intanto se ne discute molto, e in queste discussioni mi colpiscono due cose. Innanzitutto le donne interessate, che appartengono al mondo aziendale e manageriale, in modo diffuso hanno cambiato parere su questo provvedimento. Qualche anno fa, un'indagine condotta su donne in posizione di leader nelle imprese italiane diceva che erano nettamente contrarie alle quote rosa: pensavano che il 'merito' sarebbe stato riconosciuto dalle aziende, perché nel loro interesse. La stessa indagine quest'anno dice che quasi tutte -tra cui esponenti di Confindustria- hanno cambiato idea: il potere aziendale, saldamente territorio maschile, non cede davanti al merito. Basta vedere qualcuno dei molti dati disponibili. Nell'industria privata le donne sono la metà dei quadri, ma a livello di dirigenti il rapporto tra donne e uomini diventa di 1 a 6 (Federmanager 2010). Una smentita al fatto che il merito viene premiato è in un semplice indicatore: la percentuale di donne dirigenti fra il 2004 e il 2007 è cresciuta di un solo punto. Tutte incapaci, in quella metà di quadri? Dunque si dice, ma non si fa. Gli interessi di parte, la parte degli uomini che si tengono ben stretta la loro quota -totale- di potere, prevalgono non solo sugli interessi delle donne, ma anche sugli interessi aziendali e dell'economia.

La richiesta di quote nasce da qui: se la cultura aziendale non cambia nemmeno a fronte di benefici per il business, bisogna forzarla con un'imposizione legislativa. In questo modo le aziende sarebbero costrette a cercare le eccellenze femminili presenti nel mercato. Rispetto a questo, mi colpisce ancora di più l'obiezione invece spesso manifestata da uomini manager: questa legge, dicono, li costringerà a dare posti importanti a donne non all'altezza. Curioso che, a fronte di una vasta disponibilità di donne altamente competenti, e oggi risorse inutilizzate, ci si preoccupi di avere una quota di 'incompetenti' donne. Perché, vorrei chiedere, nella nostra esperienza quotidiana vediamo nei CDA e tra i dirigenti in generale solo uomini con eccelse doti professionali? Qual è la quota attuale di uomini incompetenti, mediocri e anche pessimi, che vediamo accedere a carriere che nulla hanno a che vedere con il merito? E quante donne eccellenti vediamo restare fuori? E' la cooptazione maschile nel potere che funziona, molto più della professionalità. Qualcuno, poi, dice che tanto “fatta la legge trovato l'inganno”. Certo, ammesso che si arrivi a questa legge, con partiti che non hanno posto quote reali neppure al loro interno (quote di governo, non di candidature), se si vuole svuotarne il senso e ignorare il merito, basterà cooptare le raccomandate, le controllabili, eliminando quelle meno assimilabili. E' quello che, a quanto pare, sta succedendo nei paesi scandinavi, dove si parla di 'tecniche di soppressione', quando le donne portano avanti punti di vista e azioni diverse rispetto all'orientamento consolidato, tanto più se si dimostrano di successo. Quello che non si accetta non è dare un posto in cda a una donna, ma che questa donna esca dalla sottomissione maschile. Insomma, caso mai sarà il caso di sorvegliare su come la legge verrà applicata.

Ma credo che la questione in gioco e su cui occorre concentrarsi vada ben oltre questa legge. Le leggi sono efficaci se vengono da un cambiamento che si è riusciti a creare nella società e nella cultura. E c'è ragione di credere che la proposta di legge italiana sia dovuta alla forte presenza delle donne nel mercato del lavoro qualificato, donne che in vari modi premono e hanno fatto sentire la propria voce. Quello che realmente è in gioco è una questione di potere. Potere maschile, che oggi controlla saldamente le aziende e impone la sua cultura e i suoi interessi.

E questo, per noi donne, significa affrontare il rapporto che abbiamo con il potere in azienda. Perché per molte è un rapporto difficile, problematico. La sensazione di incapacità di gestire i rapporti politici, di capirne i meccanismi e il funzionamento è uno dei limiti principali che le donne si attribuiscono.Ci sono ragioni storiche: il potere in azienda è un terreno estraneo all'esperienza collettiva delle donne, perché da sempre ne sono state escluse. C'è anche il fatto che le organizzazioni funzionano in maniera non trasparente: è particolarmente difficile capire i meccanismi e le regole non scritte del potere se nei luoghi -chiusi- dove il potere si esercita le donne non ci sono. Per queste ragioni rispetto al potere in azienda potere manchiamo spesso di un'analisi adeguata dei suoi meccanismi e non abbiamo chiarezza su cosa vogliamo e sui nostri possibili diversi strumenti. Sono difficoltà che portano a chiamarsene fuori.Cosa positiva sotto il profilo di non accettare modalità e obiettivi che non ci corrispondono. Ma limitante, se in questo modo si lascia che chi ha il potere continui a riprodurre l'attuale visione dell'azienda e delle sue regole, spesso penalizzanti proprio per le donne.

Ciò che sembra rendere difficile il rapporto con il potere aziendale è però anche un fatto positivo: il potere come si manifesta oggi in azienda ha obiettivi e modalità in cui le donne non si ritrovano. Le donne sono piuttosto orientate al 'potere di fare'. Ma con questo orientamento al fare le donne in azienda finiscono per trovarsi prevalentemente inserite nel middle management e nelle staff, che sono appunto le aree dell'operatività, dell'attuazione del piano deciso da altri. Il blocco delle donne avviene nel passaggio al top management, al potere decisionale. E' proprio questo il blocco che ora si tenta di forzare per legge. Rimane comunque l'obiettivo che dobbiamo darci nel nostro agire ogni giorno in azienda, nel nostro qui e ora, senza deleghe a nessuna legge. Qui c'è anche il lavoro più importante da fare su di noi: prendere consapevolezza di cosa vogliamo, perché senza consapevolezza non c'è azione mirata, senza azione mirata non si raggiunge l'obiettivo. E il cosa vogliamo non è solo capire se desideriamo arrivare ad un ruolo di vertice, ma anche perché, e come. Questa è la questione che può fare la differenza. Per me non si tratta di porsi 'semplicemente' l'obiettivo di conquistare più posti nei luoghi del potere. Si tratta piuttosto di ragionare su come aprire spazi alle donne con una diversa visione del potere e del governo delle aziende.

Parto da un esempio concreto. Nei mesi scorsi la PWA (Professional Women Association) con l'Osservatorio Bocconi ha individuato e proposto un gruppo di donne che hanno le caratteristiche per entrare a buon diritto nei CDA: Women Ready for Board. Come dire: ecco qua, le donne di alta competenza che non volete vedere, ci sono. Un'ottima iniziativa. Eppure qualche considerazione è stata inevitabile guardando ai nomi proposti. Soprattutto una: alcune di quelle donne sono note a molte di noi per il loro atteggiamento assimilato a quello maschile, con una condivisione dell'idea e dell'uso corrente del potere in azienda, con una lontananza dai bisogni e dalle concezioni delle donne rispetto al lavoro. Ovviamente è difficile procedere con criteri perfetti, è importante cominciare con proposte concrete, quindi qui non si vuole affatto criticare l'iniziativa. Si vuole piuttosto riportare l'attenzione su un nodo cruciale.

La domanda che dobbiamo farci è: quali donne vogliamo che entrino in questi luoghi del potere, per fare cosa, con quale visione dell'azienda e del lavoro -delle donne e di tutti- ? Perché la cosa da avere ben chiara è che il potere attuale in azienda è un potere maschile, che si esprime con modalità d'azione, modelli organizzativi, rapporti, manifestazioni simboliche e concezioni maschili. E non concepisce altro modo di dirigere un'azienda, tanto più ai vertici. Questa è una delle ragioni per cui quando troviamo donne nelle posizioni alte sono spesso assimilate al modello maschile: il modello premiante nelle aziende è quello, ed è inevitabile la pressione per rientrarvi. E gli uomini ai vertici, se devono favorire un avanzamento di carriera che riguarda una donna, la sceglieranno più facilmente se corrisponde ai loro parametri. La selezione nelle mani dgli uomini filtra in questo modo. Per questo non serve solo che più donne arrivino a occupare posti da cui è possibile governare l'azienda. Serve qualcosa di più e di diverso. Se queste donne non hanno una diversa idea di potere e di governo, se non cambiano il modello dominante, se magari dimenticano di essere donne e non mantengono un rapporto reale e simbolico con le altre donne, il loro arrivo ai vertici sarà buono per loro, ma non serve a cambiare la cultura aziendale. Cambia invece molto se in quei ruoli arrivano donne con una diversa visione, che cercano di cambiare il quadro di riferimento, i codici, l'organizzazione, i tempi, le relazioni, insomma quelle regole che oggi penalizzano le donne e rendono inutilmente più pesante la vita di lavoro di tutti.

E' questo per noi il nodo da affrontare adesso, il salto di qualità necessario: passare da questo difficile rapporto con il potere ad assumerci la responsabilità di fare la nostra parte nella classe dirigente aziendale. Ma a modo nostro, con la nostra visione.

Luisa Pogliana, scritto per Leadership & Mangement


lunedì 21 febbraio 2011

Un altro incontro al Piccolo Teatro di Milano - Una proposta di Donnesenzaguscio: CENSIMENTO DELLE COMPETENZE

23 febbraio 2011 ore 17.30 - Spazio Eurolab, Piccolo Teatro Strehler
Donna e donne nel Mediterraneo

In occasione della messa in scena dello spettacolo Migraciones Internas, il centro culturale e di formazione La Casa di Vetro, insieme al Piccolo Teatro di Milano, propone l’incontro sul tema
Donna e donne nel Mediterraneo. L’autrice dello spettacolo Migraciones Internas, Ana Fernández Valbuena, racconterà i passaggi di questo progetto di scrittura, tratto parzialmente dalla realtà storica di tante donne e uomini negli ultimi cent'anni.
Guidate da Maria Cristina Koch della Casa di Vetro converseranno con lei:
Angela Calicchio – presidente di Outis - Tramedautore
Sumaya Abdel Qader - scrittrice di origine palestinese autrice di Porto il velo, adoro i Queen
Interverrà Luisa Pogliana – presidente dell’associazione Donnesenzaguscio
Qui di seguito l'intervento.

CENSIMENTO DELLE COMPETENZE

Alcuni mesi fa ero all'Università Statale di Milano per una presentazione del mio libro Donne senza guscio, un saggio sulla realtà delle donne manager nelle aziende italiane. Erano venute a parlarne, tra le altre, alcune rappresentanti di istituzioni politiche. A un certo punto vedo entrare una di loro accompagnata da una donna dall'aspetto magrebino, con il velo in testa. Ecco, pensai, perché l'ha portata? Per far vedere come siamo accoglienti e valorizzanti? Conoscendo gli spazi concessi dal nostro mercato del lavoro a queste donne immigrate, di solito ben lontani dai ruoli di donne manager, temevo qualcosa di strumentale. Intanto, dopo gli interventi iniziali, si comincia a discutere. A un certo punto prende la parola proprio quella donna, e racconta di sé.

Quando vivevo in Tunisia -dice- io ero dirigente d'azienda, ed ero anche una di quelle dure, mi facevo valere e ho fatto lavori importanti. Ma da quando sono venuta in Italia trovo un mucchio di difficoltà a fare lo stesso lavoro, nonostante l'esperienza e la qualificazione. Ora un lavoro l'ho trovato, e mi impegna molto. Ma qui non sono solo le aziende a crearmi difficoltà. Siete anche voi, donne italiane, mamme italiane. Io ho due figli, educati ad essere autonomi. Sono sempre stati bene, non c'è mai stato un problema per il fatto che lavoravo e tanto. E' solo adesso che cominciano i problemi: perché vedono come le mamme italiane trattano i loro figli, e pretendono anche da me di essere trattati così: superprotetti, mamme al loro servizio. Io i sensi di colpa non li ho mai avuti, non sapevo nemmeno cos'erano, ma adesso a causa vostra i miei figli cominciano a farmeli venire. Se volete fare le manager, forse, dovete cambiare un po' anche voi.

Ecco qua, mi sono detta, oggi ho preso la mia lezione. Donne che vengono dall’altro lato del Mediterraneo, come quelle dall'altro lato dell'oceano, hanno qualcosa da insegnarci su come essere manager e mamme. Ci mostrano i nostri errori, e lo fanno fondandosi sulla loro cultura. Una cultura che noi pensiamo di conoscere, ma spesso non andiamo troppo oltre l'idea di arretratezza rispetto a noi, soprattutto per quanto riguarda le donna. Ma c'è di più nel ragionare su questo rapporto. Noi donne impegnate in percorsi professionali possiamo fare il nostro lavoro solo se abbiamo accanto queste donne immigrate. E' il loro lavoro che ci permette di fare con un po' più di tranquillità il nostro. Possiamo delegare a loro la gestione della nostra casa, una parte significativa della cura dei nostri figli, e dei nostri familiari anziani. Sono lavori modestamente retribuiti, ma soprattutto lavori senza una prospettiva di miglioramento. Come scrive Saskia Sassen, queste donne “formano una classe invisibile, priva di potere, di lavoratrici al servizio dell'economia globale, senza possibilità di avanzamento. Questi tipi di mansioni non vengono mai rappresentati come una componente dell'economia globale, ma in realtà fanno parte dell'infrastruttura essenziale per la gestione del sistema economico”.

Lavori invisibili, persone invisibili, intese solo come massa indifferenziata. Ricordiamoci cosa ha voluto dire per noi la parola 'marocchini': tutte le persone della prima ondata di immigrazione dall'altra riva del mediterraneo. La parola ‘marocchini’ è poi stata sostituita da un’altra altrettanto stereotipata rispetto al loro ruolo lavorativo: ‘vucumprà’. E qui pensiamo anche ad un altro aspetto che abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni. La signora che si prende cura della mia casa ha un diploma di informatica, quella che lavora da mia suocera era insegnante di fisica. Chi non conosce qualche donna laureata o dotata di alto potenziale, costretta a lavorare come badante o in un'impresa di pulizie? Dovremmo cominciare a guardare in faccia la commessa, il barista, gli altri immigrati che incontriamo per strada, e pensare: probabilmente, un talento sprecato. Ci sono qui da noi lavori che non vogliamo fare, e ci fa comodo vedere queste persone come destinate a questi lavori. E d’altra parte i lavoratori italiani difendono, in questo mercato del lavoro difficile per tutti e tutte, i posti di lavoro più qualificati. Così si frappongono per i lavoratori e le lavoratrici immigrati infiniti ostacoli, anche formali: il valore legale del titolo di studio è solo un esempio. Eppure queste persone, alle capacità aggiungono la forte motivazione (spesso le donne sono le più determinate, motivate, spesso sono loro le apripista). E aggiungono una diversità culturale -aver vissuto in luoghi diversi, conoscere più lingue, saper osservare il nostro stile di vita dall’esterno, sapersi confrontare con culture diverse- che ha un preciso valore di mercato. Gli immigrati potrebbero aiutarci a migliorare la nostra capacità di agire sul mercato globale, portando una maggiore possibilità di capire le altre culture. Se il futuro delle nostre aziende sarà sui mercati internazionali, sempre più sarà necessario un management multiculturale. E' lì, anche lì, che è importante integrare persone di altre culture.

Per questo sarebbe molto fruttuoso per le aziende, oltre che giusto da un punto di vista etico, portare alla luce e valorizzare queste risorse. Con una rilevazione delle competenze di lavoratori e lavoratrici immigrati. Un censimento non fondato su una descrizione di competenze data a priori (cioè, vediamo se è adatto o adatta a fare un certo lavoro per cui c'è richiesta). Perché per questa via si finisce per trovare quello che si cerca. Ma cercando ogni capacità: quello che sa fare, quali lingue conosce, titoli di studio non legali da noi e spesso non dichiarati per timore di non essere accettati per lavori manuali. Un'operazione così richiede ovviamente il coinvolgimento di diversi attori economici e sociali. Penso ai sindacati, alle associazioni imprenditoriali. Difficile mettere in moto una simile macchina. Ma è importante cominciare da qualche parte. Dal mio punto di vista, vedo che questa operazione si può fare a livello aziendale. Quasi nessuna azienda l’ha fatto, ma qualcuna ha provato e ne ha tratto risultati: proprio guardando a questo caso, fa impressione scoprire che abbiamo già in casa le persone che magari stiamo cercando sul mercato.

Penso anche che per fare questo lavoro siano più attrezzate le donne. Perché noi, donne manager, abbiamo esperienza di quante e quali sono le risorse sprecate oggi nelle aziende italiane. Semplicemente, le risorse sprecate siamo noi. Risorse di competenza e motivazione, non riconosciute per stereotipi culturali dei vertici aziendali maschili. Può sembrare ardito accostare la nostra situazione, per molti aspetti già di privilegio, al lavoro delle donne immigrate. Ma noi possiamo capire, e abbiamo voglia di cambiare le cose. Perciò sono qui a parlare, come donna manager, e come associazione: perché abbiamo una diversa idea di come si possano governare le aziende e cerchiamo di aprire spazi a questa visione. Anzi, voglio fare un esempio addirittura più estremo. Recentemente, dato che le posizioni di vertice nelle aziende italiane restano fortemente chiuse alle donne, la PWA -Professional Women Association-, e l'Osservatorio sulle Differenze della SDA Bocconi, hanno fatto un censimento delle donne che hanno tutti i requisiti per accedere a queste posizioni, e hanno presentato un elenco. Come dire: eccole qua, nome e cognome, le donne competenti che non volete vedere. Ecco, io credo in una operazione simile. Possiamo dire che, come in azienda servono politiche tese a permettere la piena espressione professionale delle donne, servono anche azioni simili rispetto agli immigrati. E prima di tutto rispetto alle immigrate, doppiamente svantaggiate dalla cultura aziendale dominante in Italia.

Ho iniziato con un episodio reale e chiudo con un altro. Ho detto che qualche azienda ha provato a fare questa operazione e ne ha tratto risultati. Si tratta di una grande multinazionale italiana, con una quota consistente di dipendenti immigrati. Qualche anno fa ha fatto questo censimento delle competenze. Tra i risultati, un caso clamoroso: in una attività di servizio si scopre Orazio (cambio il nome), giovane nord africano. Parla cinque lingue, ha due lauree, di cui una in informatica, specialista di una serie di sistemi informatici avanzati. Subito inserito nella direzione ICT, ha lavorato a progetti importanti e innovativi. Speriamo che altre aziende imparino da questa esperienza, credo che così possiamo trovare anche molte donne come Orazio, forse meglio. Noi siamo pronte a collaborare.



Un intervento di Alessandra Bocchetti

Pubblichiamo l'intervento di Alessandra Bocchetti alla manifestazione del 13 febbraio a Roma. Lo troviamo non solo totalmente condivisibile, ma molto vicino al nostro pensiero relativamente alle donne nel governo delle aziende

http://www.youtube.com/watch?v=1pFzR1f9eKA

domenica 13 febbraio 2011

LE COMPETENZE SPRECATE- Una tavola rotonda a Bologna della FONDAZIONE ENZO SPALTRO e AIDP EMILIA-ROMAGNA


LE COMPETENZE SPRECATE
Governare le aziende con modelli organizzativi nuovi La presenza delle donne in aziende nei ruoli manageriali ha fatto emergere una differente visione del lavoro, del modo di essere manager, dell’azienda stessa.
E’ uno scenario nuovo dove le donne hanno la possibilità di esprimere il loro potenziale professionale e l’azienda di arricchirsi di capacità presenti al suo interno e spesso sprecate.
Eppure spesso rimane molto difficile realizzare questi cambiamenti perché chi ha il potere in azienda tende a riprodurre un modello considerato l’unico possibile che tiene le donne fuori dai posti dove si decidono le politiche aziendali.
Non stupisce, allora, che le donne, rispetto a questo modo in cui il potere si manifesta, vivano una difficoltà che porta spesso a chiamarsene fuori.
Ma oggi il mondo è cambiato, le esigenze anche per il mondo del lavoro sono diverse e le aziende fondate su modelli conservatori, incapaci di nuove visioni, non hanno prospettive.
Le donne si trovano di fronte ad una nuova assunzione di responsabilità e gli uomini di fronte a possibili organizzazioni diverse.
Si tratta per le aziende di ragionare sulle diverse visioni che vengono dalle donne e dagli uomini e sui possibili modelli organizzativi che permettano l’apporto indispensabile di entrambi.
Giovedì 17 febbraio 2011, Dalle ore 17 alle ore 19,Presso la sede di Emilbanca di Bologna

Rita Finzi – Vice Presidente LegaCoop Bologna
Isabella Covili Faggioli - Presidente Aidp Emilia Romagna
Ivano Piran – Direttore Risorse Umane Profumerie Limoni
Luisa Pogliana – Presidente Associazione Donne senza Guscio
Coordinerà l’incontro Stefano Guaraldi
Direttore del Personale di Emilbanca e membro della task force zero dell'Università delle Persone

giovedì 10 febbraio 2011

PICCOLO TEATRO DI MILANO - CONFERENZA DI LUISA POGLIANA sul tema "LE DONNE: UN DIVERSO GOVERNO DELLE AZIENDE"

In occasione dello spettacolo La compagnia degli uomini di Edward Bond, il PICCOLO TEATRO di Milano ha organizzato una conferenza, in collaborazione con l'associazione Donnesenzaguscio e la Casa di Vetro, sul tema Le donne: un diverso governo delle aziende.

Riportiamo l'intervento di Luisa Pogliana, che si è sviluppato sulle domande di Maria Cristina Koch

MCK - Nello spettacolo che segue ci sono solo uomini: al vertice di aziende, manager, protagonisti del business, che agiscono secondo tipici modelli maschili. Questo mi porta ad aprire con una domanda: ma allora, ancora oggi, il lavoro è solo degli uomini? Come vedi tu questa realtà dal tuo punto di osservazione?

LP - Possiamo cominciare a rispondere pensando ad un episodio. Esattamente cinquant'anni fa la Corte Costituzionale accoglieva il ricorso di Rosanna Oliva e apriva le carriere in magistratura, nella prefettura e nella diplomazia anche alle donne. Sì, perché allora alle donne era sbarrato l'accesso a queste professioni. Rosanna Oliva voleva accedere al concorso per diventare prefetto e fu respinta, ma non si fermò, e vinse. Qualcuno ricorda di aver mai sentito parlare di Rosanna Oliva? Eppure noi le dobbiamo un atto di giustizia e un'apertura di libertà per tutte noi donne. Non solo in quelle carriere. Il valore concreto e simbolico di quell'atto è enorme: una donna che ha saputo dire 'perché io no?'. Bisogna ricordarselo oggi. Perché non è ancora vero che tutte le carriere sono realmente aperte alle donne. L'azienda e i modelli di management, nati quando vi era una rigida divisione sociale del lavoro, sono stati costruiti dagli uomini a loro misura. E questa cultura sopravvive per molti aspetti, creando un contesto che spesso penalizza ingiustamente le donne.Eppure, nonostante questo, la presenza delle donne anche nei ruoli manageriali ha già portato cambiamenti importanti.

Dunque andando oltre l'aspetto quantitativo della presenza delle donne, in che senso allora il lavoro non è più solo degli uomini?

Come scelta e come diversa concezione che viene dalle donne. Innanzitutto le donne amano il loro lavoro, perché lo vedono in una prospettiva di autorealizzazione. Ancora oggi le aspettative della società non chiedono alla donna l'affermazione nel lavoro, cosa invece imprescindibile per un uomo, perciò la decisione di cercare un percorso professionale di alto profilo, per le donne nasce da una forte motivazione personale. Si potrebbe dire che mentre un uomo deve, una donna sceglie di fare carriera. C'è però un altro aspetto nuovo. Se oggi la realizzazione nel lavoro è imprescindibile nella vita di molte donne, non lo è a scapito del resto della vita. E' inserita in un progetto di vita intero, a cui non si vuole, e si ritiene possibile, non rinunciare. Ma la cosa più importante è che le donne cercano un personale modo di realizzarsi nel lavoro senza appiattirsi su modelli dominanti, che sono modelli maschili, e mettono in atto tentativi di rottura delle regole aziendali in cui non si ritrovano. Donne senza guscio, dunque, è stato il titolo del mio libro soprattutto per questo. Perché le donne entrano in azienda senza la protezione di un'appartenenza consolidata a questo mondo, eppure accettano il rischio implicito nell'abbandonare gusci a loro inadatti, per trovare anche nel lavoro una vita a loro misura. Le donne hanno fatto proprio il lavoro nel senso che affermano una loro diversa visione su questo terreno. E' una manifestazione potente della propria soggettività.

Nella cacciata dal giardino dell'eden Dio diede all'uomo il lavoro come maledizione. Ma la donna lo preso per sé come scelta.E lo sta plasmando su se stessa. Questo non impedisce che molte donne si approprino del lavoro proprio seguendo i modelli maschili

Bisogna dire una cosa ovvia, ma che è bene esplicitare. Non tutte le donne sono uguali, come non tutti gli uomini sono uguali e non tutte le aziende sono uguali. Quando qui parliamo di atteggiamenti femminili o maschili, o di cultura aziendale, facciamo riferimento a modi di essere che caratterizzano prevalentemente le donne o gli uomini, e la cultura aziendale.Sappiamo benissimo che tra le donne troviamo anche quelle che adottano stili manageriali maschili. D'altra parte oggi la cultura delle aziende e dei suoi vertici è maschile, dunque è più facile che possano accedere a posizioni di dirigenti donne che più rientrano nei canoni di riferimento. Ma quello che importa è raccogliere il nuovo, il buono che viene dalle donne, da donne consapevoli della loro differenza e del suo valore. Tra contraddizioni, incoerenze e limiti. Interessa la strada che si apre, la potenzialità .

In che cosa oggi si si manifesta, com'è questo modo diverso di essere manager che viene dalle donne?

Diciamo anche che non si tratta di proporre un modello femminile, alternativo a quello maschile, definito però in modo altrettanto normativo. Ci sono certo attitudini più presenti tra le donne. Per esempio, la capacità di relazione, la competenza emotiva, saper lavorare in team, l'attenzione alle persone... Che sono anche cose vere e di valore. Ma la differenza femminile e il suo valore non si può ricondurre a un elenco di skill specificate (e limitate), perché così si tende a confinarle in certi ruoli, a fondare una nuova divisione sessuale del lavoro. La differenza femminile, per me, si manifesta soprattutto in un atteggiamento complessivo, che è la prevalenza della persona sul ruolo. Le donne si rapportano al lavoro prima in base alla propria soggettività, alla propria visione, e da lì si confrontano con norme e modelli. Si rapportano al lavoro come persone intere, e rifiutano la scissione tra lavoro e il resto della vita. E' a partire da questo che le donne formulano proposte di cambiamento.

Su quali aspetti in particolare si concretizzano queste proposte?

L'aspetto forse più affrontato è quello dell'organizzazione del lavoro, anche perché al suo interno è compreso il modo di rispondere alle esigenze rispetto alla maternità. Che nelle aziende continua ad essere considerato non un problema, ma il problema. Pur essendo positivamente gestibile. Come vediamo molto spesso tra le donne imprenditrici, che innovano soprattutto nelle politiche del personale: perché hanno una conoscenza concreta di come è la vita reale. E sanno che se le persone vivono meglio lavorano anche meglio. E le donne manager convergono su una forte critica e riformulazione dei modelli organizzativi, creati storicamente dagli uomini a loro misura, che mantengono rigidità e ritualità oggi insensate: soprattutto la richiesta di una presenza fisica in ufficio illimitata, a prescindere dalle reali necessità: le carriere presenzialiste, dove contano lunghe presenze in ufficio, più che quello che si produce realmente in quelle ore.Le donne contrappongono la richiesta di un sistema premiante fondato su lavorare per obiettivi, e valutare in base al loro raggiungimento. Cosa che permette di gestire in modo flessibile la presenza in ufficio.Proposte ragionevoli e razionali, anche a vantaggio dell'azienda: le donne non chiedono privilegi o lavorare di meno, ma di essere messe in condizione di lavorare meglio.

Il contributo positivo che può venire da queste proposte è dimostrato anche dal fatto che alcune aziende innovative su questo terreno hanno cominciato ad adottarle. Eppure nella maggior parte dei casi questo orientamento trova forti resistenze. Perché?

Se pensiamo che queste proposte siano sostanzialmente soluzioni pratiche, sbagliamo. Hanno una portata molto più ampia e profonda, perché toccano il modo in cui le aziende funzionano. Guardiamo ancora l'esempio che ho fatto. L'organizzazione del lavoro non è solo uno strumento tecnico per fare funzionare l'azienda. Serve in buona parte al vertice aziendale per mantenere il suo potere, attraverso il modello di pianificazione e controllo. Modello funzionale ad attuare quelle regole ritenute le uniche possibili. Si può dire che è un modello tipicamente maschile, che definisce il mondo aziendale attraverso un'astrazione dove tutto è stato messo in un posto definito, e a quella ci si attiene, tutto ciò che non è contemplato non si può fare. Perché così si pensa di controllare tutto. Sono questi meccanismi che le donne rifiutano, e con le loro proposte improntate alla concretezza svelano il funzionamento del potere. Perché il potere in azienda è detenuto da uomini, e si esprime con codici, manifestazioni simboliche, finalità e modalità d'azione maschili. Dunque il volere delle donne si scontra con il potere degli uomini. Perché nei luoghi dove si decidono le politiche aziendali, le donne non ci sono. Questi luoghi assomigliano ancora molto alle scene dell'opera di Edward Bond, nelle forme e nei contenuti.

Ma allora la parola potere può entrare nel vocabolario delle donne?

Ma di cosa parliamo quando parliamo di potere? Quando ne parliamo con una connotazione negativa, quella che ci respinge, noi parliamo del potere maschile che oggi vediamo in azienda. Che è un potere di dominio, di controllo, quindi è legato alla conservazione, alla difesa dell'esistente definito. Ed è anche usato dagli uomini al vertice per la propria promozione personale, prima ancora che per fare gli interessi dell'azienda. Le donne sono più interessate al potere di fare, anche se con questo orientamento al fare spesso in azienda finiscono per lavorare molto e poter decidere poco. Ma c'è anche un'idea che va oltre, un'idea di 'potere' come possibilità di agire, di far succedere le cose. In questo io vedo un potere costruttivo, generativo, che cambia e che trasforma. Questa visione che viene dalle donne, più che una cultura di potere, esprime una cultura di governo, e questa mi sembra la parola più adatta. Perché indica un modo di guidare e prendersi cura dell'azienda e delle persone che vi lavorano, non di dominarle. Non con il comando e l'autorità, ma con l'autorevolezza,Il governo, la guida, la cura, sembrano tre parole prese dal vocabolario e dall'esperienza delle donne. Eppure sono tre parole che, ovviamente dette in inglese, ricorrono nel vocabolario di management : governance, leadership, take care. Ma come tali sono piuttosto imbalsamate e svuotate del senso originale. Se proviamo a lasciarle nella nostra lingua, vicine al vocabolario delle donne, vediamo che sono tre allontanamenti concreti dal modo astratto di intendere il potere nelle aziende, tre assunzioni di responsabilità. In questo ci sono potenzialità di cambiamento, anche per le aziende. Il mondo è cambiato: uno stile manageriale, un'azienda che si basa su presupposti di controllo e potere non e' piu' efficace in questo contesto. Deve introdurre nuove idee e modi di lavorare.E queste possono essere portate dalle donne: un potenziale non espresso, anche perché gli interessi di parte, in questo caso la parte degli uomini che stanno ai vertici, prevalgono anche sugli interessi dell'economia.

Verrebbe da dire che le aziende vanno ri-governate. E questo però per le donne vuol dire alzare la loro asticella, esporsi, mettersi a rischio.

Penso che molte abbiano maturato questa consapevolezza. Ma qui occorre ragionare su una nostra difficoltà.Si verifica infatti che, rispetto al potere aziendale, molte donne manifestino una incapacità di rapportarsi, una estraneità che porta a chiamarsene fuori. In questo gioca la nostra inesperienza storica su questo terreno, il fatto che le organizzazioni funzionano in modo non trasparente, e -però- anche perché hanno, come abbiamo visto, una diversa concezione del potere. Qui c'è una potenzialità. Quando le donne dicono che non sanno gestire il potere, che non sono interessate, forse dicono che non lo vogliono così com'è, che non accettano modalità e obiettivi in cui non si ritrovano. Forse esprimono in concreto che questo non è il miglior sistema di potere. Si pone dunque il problema di non lasciare che chi ha il potere continui a riprodurre l'attuale visione dell'azienda e delle sue regole. Di come aprire più spazi alla nostra visione che oggi non trova posto nei contesti aziendali.

Cosa possiamo pensare allora di strumenti come le quote rosa?

Certamente tutto può aiutare. Ma occorre anche qualcosa di più e di diverso. Diciamo chiaramente che non si tratta di porsi l'obiettivo di occupare ruoli di potere al posto degli uomini, comunque. Non si tratta di prenderci una quota più ampia della gestione aziendale lasciando intatto il quadro di riferimento, gli obiettivi e le modalità di funzionamento. Se più donne occupano posti di potere, senza cambiarne la concezione e le finalità, e anche dimenticando di essere donne, senza una relazione reale e simbolica con le altre donne, non cambia niente. C'è invece una grande possibilità di cambiamento, per le donne e per tutti, se si porta questa diversa idea del governo delle aziende nei ruoli dove si decidono le politiche aziendali, se questi ruoli si incarnano in un corpo e in una testa consapevole di donna. Per me questo definisce la strada che abbiamo davanti ora: passare da un difficile rapporto con questo potere ad assumerci la responsabilità di fare la nostra parte nel governo delle aziende, a tutti i livelli.

Cosa ci aspetta nell'affrontare questo passaggio?

Tornando alla domanda che hai fatto all'inizio -il lavoro è solo degli uomini?- possiamo dire no, il lavoro non è solo degli uomini. Ma il potere sì. E allora a quali leadership innovative possono guardare oggi le donne per avere opportunità di cambiamento? Nessuna. Le donne possono contare solo su se stesse. Sappiamo bene cosa ci aspetta, le difficoltà, i tempi, le molte questioni da capire, le penne che lasceremo sul terreno. Non siamo idealiste, e non pensiamo di di essere onnipotenti. E' chiaro che non si tratta di una battaglia che prima o poi finisce, o di fare una rivoluzione. Si tratterà di imparare a vivere dentro a questo conflitto, negoziando, spostando continuamente la situazione, agendo qui ed ora senza deleghe. Noi oggi non sappiamo bene come fare, ma il come possiamo trovarlo, possiamo trovarlo insieme Noi, il gruppetto di donnesenzaguscio, lavoriamo su questo. E pensiamo che tutto si può imparare: si può mparare a governare le aziende in un altro modo.

Possiamo chiudere portandoci via questa prospettiva di assunzione responsabilità. Perché la responsabilità è la caratteristica delle persone adulte e libere. E' di questo che abbiamo bisogno e desiderio.


sabato 5 febbraio 2011

Le DONNE: UN DIVERSO GOVERNO DELLE AZIENDE. Una conferenza di Luisa Pogliana, con Maria Cristina Koch al Piccolo Teatro di Milano

(cliccare sull'immagine per ampliarla)



La Casa di Vetro
con
PICCOLO TEATRO - TEATRO D'EUROPA

in occasione dello spettacolo "La compagnia degli uomini"
di Edward Bond

presentano

un incontro con Luisa Pogliana,
condotto
con Maria Cristina Koch

sul tema

LE DONNE: UN DIVERSO GOVERNO DELLE AZIENDE

Giovedì 10 febbraio 2011, ore 18.30
Piccolo Teatro Grassi, via Rovello 2, Milano




mercoledì 2 febbraio 2011

LE DONNE: UN ALTRO MODO DI GOVERNARE LE AZIENDE - Intervento introduttivo di Luisa Pogliana all'incontro di Milano


(Milano, 3 febbraio, 18.30, Casa di Vetro, via Sanfelice 3)

Dico rapidamente da dove arriva e cosa vuole essere questo incontro. Essere donna e manager è stata la mia vita di lavoro. Via via che vivevo questa esperienza sentivo il bisogno di ragionare su questa realtà. Così ho coinvolto in un percorso di riflessione altre donne manager, e questo è poi diventato il libro Donne senza guscio. Libro che ha suscitato molti incontri di discussione nell'ultimo anno e mezzo. Ad un certo punto mi sono resa conto che c'era un forte bisogno di andare avanti soprattutto a proposito del rapporto con il potere in azienda. Un punto che risultava particolarmente problematico. Su questo si è sviluppato uno scambio intenso con alcune donne, che ci ha portate a costituire questa piccola associazione, come strumento per continuare a ragionare e mettere in circolo pensieri e pratiche sulla specificità del nostro lavoro. Abbiamo cominciato proprio dal rapporto con il potere in azienda, attraverso colloqui con donne manager, che con il potere si confrontano ogni giorno. E vogliamo proporre questo tema di discussione anche ad altre donne interessate, con incontri come questo.

Comincio dunque a proporre alcuni punti di partenza. La presenza delle donne in azienda nelle posizioni dirigenziali, ha portato una forte novità, anche rispetto a non molti anni fa. Ed è che le donne cercano un personale modo di esprimere il loro ruolo senza appiattirsi sui modelli maschili dominanti, in cui non si ritrovano. Le donne si rapportano al lavoro prima in base alla propria soggettività, alla propria visione, ed è a partire da lì che si confrontano con norme e modelli. Emerge così una differente visione del lavoro, del modo di essere manager e dell'azienda stessa. Mi limito qui a dire che la differenza delle donne si manifesta sostanzialmente in un atteggiamento complessivo, che è la prevalenza della persona sul ruolo, e il rifiuto della scissione tra lavoro e il resto della vita. E' a partire da questo che le donne mettono in atto tentativi di cambiare le regole aziendali, e avanzano proposte di cambiamento. Proposte per permettere di lavorare meglio, tenendo conto della vita delle persone e traendone vantaggi anche per l'azienda. Bisogna allora chiedersi perché, nonostante la ragionevolezza e razionalità di questi cambiamenti, rimane molto difficile realizzarli. La mia risposta è che qui entra in gioco la questione del potere in azienda, e di chi lo detiene. Possiamo vedere questa affermazione con un esempio importante: l'organizzazione del lavoro. Tra le donne vi è una forte convergenza critica rispetto ai modelli organizzativi, creati storicamente dagli uomini a loro misura, con rigidità e ritualità oggi insensate. Soprattutto la richiesta di una presenza fisica in ufficio illimitata, a prescindere dalle reali necessità. A questo le donne contrappongono un sistema premiante fondato sul lavorare e valutare per obiettivi. Criteri, dunque, che non comportano aggravi per le aziende. Eppure le resistenze da parte dei vertici aziendali sono nette. La ragione sta nel fatto che i vertici aziendali, chi ha il potere in azienda, sono oggi quasi esclusivamente uomini. Che decidono modelli organizzativi funzionali alla loro concezione, funzionali all'attuazione e al controllo di quelle regole che loro considerano le uniche possibili. Allora se pensiamo che le proposte delle donne siano solo ragionevoli soluzioni pratiche, sbagliamo. L'organizzazione del lavoro non è solo uno strumento tecnico per fare funzionare l'azienda, ma serve in buona parte al vertice aziendale per mantenere il suo potere, attraverso un modello fondato su pianificazione e controllo. Questo è il modello dominante nelle aziende, ed è infatti un modello tipicamente maschile: perché definisce il mondo aziendale attraverso un'astrazione, dove tutto è stato messo in un posto definito, e ciò che non è contemplato non si può fare (come, per esempio, la gestione flessibile dei tempi di lavoro proposta dalle donne). Attenendosi a questa astrazione si pensa di poter controllare tutto, e si arriva piuttosto a non vedere più la realtà che si ha sotto gli occhi. Sono questi meccanismi che le donne rifiutano, e con le loro proposte improntate alla concretezza svelano e vanno a toccare il modo in cui le aziende agiscono.Un modo che continua a riprodursi, perché nei luoghi dove si decidono le politiche aziendali, le donne non ci sono. Dunque il volere delle donne si scontra con il potere degli uomini. Così molte hanno maturato questa consapevolezza: che occorre porci il problema di come aprire più spazi alla nostra visione, che oggi non trova posto nei contesti aziendali. Che occorre non lasciare che chi ha il potere continui a riprodurre l'attuale visione dell'azienda e delle sue regole.

Questo ci porta alla questione problematica, perché mentre le donne sui propri obiettivi e visioni ci sono idee molto chiare, nel rapporto con il potere manifestano una forte difficoltà. Rispetto al potere aziendale, molte donne vivono una incapacità di rapportarsi, una estraneità che porta a chiamarsene fuori. In questa estraneità gioca la nostra inesperienza storica su questo terreno, il fatto che le aziende funzionano in maniera non trasparente, ma anche una diversa concezione del potere. Forse qui troviamo una potenzialità. Quando le donne dicono che non sanno gestire il potere, o che non sono interessate, forse dicono qualcosa in più: che non lo vogliono così com'è, che non accettano modalità e obiettivi in cui non si ritrovano. Forse esprimono in concreto che questo non è il miglior sistema di potere. Com'è il potere che vediamo messo in atto nelle aziende?

Il potere oggi è sostanzialmente detenuto da uomini, e dunque si esprime con codici, manifestazioni simboliche, finalità e modalità d'azione maschili. E' un potere di dominio e di controllo, quindi è legato alla conservazione, alla difesa dell'esistente. Compresa la difesa del proprio potere: gli uomini usano il potere come strumento di promozione personale, prima che per perseguire interessi aziendali. Gli interessi di parte, in questo caso la parte degli uomini, prevalgono anche sugli interessi dell'azienda e dell'economia, non solo sugli interessi delle donne. Le donne, in prevalenza, sono interessate al potere di fare, sono più orientate a curare gli interessi aziendali rispetto ai propri (intendendo l'azienda come l'insieme di chi la costituisce). E' già una importante differenza, ma con questo orientamento al fare spesso le donne finiscono per lavorare molto e poter decidere poco. Emerge però ora tra le donne un'idea che va oltre questo limite, un'idea di 'potere' come possibilità, possibilità di agire, di far succedere le cose. In questo io vedo un potere costruttivo, generativo, che cambia e che trasforma.

Questa visione, più che una cultura di potere, esprime una cultura di governo. Questa mi sembra la parola più adatta. Perché indica un'idea di guidare e prendersi cura dell'azienda -e delle persone che vi lavorano-, non di dominarle . Di dirigere non con il comando e l'autorità, ma con l'autorevolezza. Il governo, la guida, la cura, sembrano tre parole prese dall'esperienza delle donne. Eppure sono tre parole che, ovviamente dette in inglese, ricorrono nel vocabolario di management: governance, leadership, take care. Ma come tali sono piuttosto imbalsamate e svuotate del senso originale. Se proviamo a lasciarle nella nostra lingua, vicine al vocabolario delle donne, vediamo che sono tre allontanamenti concreti dal modo astratto di intendere il potere nelle aziende, tre assunzioni di responsabilità. Diciamo chiaramente che non si tratta di porsi l'obiettivo di occupare ruoli di potere al posto degli uomini, comunque. Non si tratta di prenderci una quota più ampia nella gestione aziendale lasciando intatto il quadro di riferimento, gli obiettivi e le modalità di funzionamento. Se più donne occupano posti di potere, senza cambiarne la concezione e le finalità, e anche dimenticando di essere donne, senza una relazione reale e simbolica con le altre donne, non cambia niente. C'è invece una grande possibilità di cambiamento, per le donne e per tutti, se si porta questa diversa idea del governo delle aziende là dove si decidono le politiche aziendali, se i ruoli decisionali si incarnano in un corpo e in una testa consapevole di donna.

Per me questo è il passaggio che abbiamo davanti ora: passare da un difficile rapporto con questo potere ad assumerci la responsabilità di fare la nostra parte nel governo delle aziende, a tutti i livelli. Ecco, sappiamo bene cosa ci aspetta, le difficoltà, i tempi, le questioni da capire. E non sappiamo invece bene come fare. Il come fare dobbiamo trovarlo, e dobbiamo trovarlo insieme, perché possiamo contare solo su noi stesse. Ma dobbiamo alzare la nostra asticella. Posso dirlo con le parole di un'altra donna, Alessandra Rizzi: dobbiamo diventare regine, non principesse.