domenica 6 marzo 2011

La differenza femminile e i due maglioni

Recentemente si è tenuto a Bologna un incontro di AIDP e Fondazione Spaltro, su 'Le competenze sprecate', che sono poi le competenze femminili non valorizzate e non utilizzate dalle aziende. Nel suo intervento, Isabella Covili ha usato una efficace metafora, subito ripresa da qualche giornale: “E' come se, in una giornata di gelo invernale, una persona freddolosa che ha due maglioni uscisse di casa mettendone uno addosso e tenendo l'altro in mano”.

Ecco, delle competenze femminili in azienda e di leadership femminile ormai si parla molto. Ma in realtà è un discorso che, come Isabella ha messo in evidenza con i suoi due maglioni, non è realmente acquisito nella cultura aziendale. E in ogni caso rimane chiuso in una visione riduttiva, limitata ad alcune caratteristiche attitudinali. Infatti, quelle che correntemente si considerano le differenze che le donne portano nel management -e che in alcuni casi le donne stesse puntano a valorizzare agli occhi dell'azienda- sono definite in modo abbastanza preciso: competenza emotiva, attenzione alle persone, capacità di relazioni, lavorare e far lavorare in gruppo... Tutte cose che dovrebbero essere parte del bagaglio manageriale, e che le donne effettivamente hanno più spesso degli uomini, qualunque ne sia l'origine. Vale la pena riflettere un po' più a fondo su questa definizione, che sembra ormai quasi banale, perché si presta invece a molte considerazioni .

Innanzitutto queste supposte attitudini non hanno in realtà un valore definitivamente acquisito rispetto ai modelli aziendali. Il giudizio su queste 'competenze' è variabile a seconda di come serve vederle, a discrezione di chi ha il potere di definire i criteri e di valutare, a seconda del contesto. Porre attenzione alle persone, far leva su motivazione e coinvolgimento violano in realtà i codici di durezza che dominano in azienda come caratteristiche distintive del vero manager, che procede con ordini e spietatezza. Non sono lontani i tempi in cui sulle riviste economiche comparivano orgogliosamente le classifiche dei manager più tough del mondo. Perciò ben venga se una donna usa la sua capacità di relazione, per esempio, con i clienti. Ma se usa queste modalità con i suoi dipendenti, riduce le possibilità di salire nella gerarchia perché può essere considerata debole, buonista, una che non sa farsi valere.

Non bisogna poi dimenticare che in azienda vige sempre un doppio codice: la stessa cosa cambia valore se è fatta da un uomo o se è fatta da una donna. Se un uomo si arrabbia è uno che sa imporsi, una donna che alza la voce è isterica (o altre varianti); se un uomo 'sente' che una decisione è giusta ha intuito, se lo dice una donna è emotiva e irrazionale; l'ambizione è una dote per un uomo di talento, ma una donna ambiziosa è una 'carrierista', e così via. Damned if you do, damned if you don't, diceva il titolo lapidario di una ricerca di Catalyst a questo proposito. E se non vale nemmeno la regola che va tutto bene se si diventa come un uomo, se questo è il cambio di valore delle doti 'maschili' quando sono incarnate in una donna, figuriamoci cosa succede con le doti 'tipicamente' femminili.

Infatti, in realtà, tutto ciò che è legato all'esperienza storica delle donne, ed esaltato nel contesto privato, diventa subito un disvalore appena compare in azienda. Prendiamo la maternità, anche solo come atteggiamento nelle relazioni: se una manager si prende cura delle persone che lavorano con lei, per guidarle e farle crescere, viene subito accusata di 'fare la mamma'. Ovviamente con connotazione sprezzante, come se fare la mamma fosse qualcosa di negativo. Ora, un conto è confondere i piani delle relazioni, spostare dal rapporto organizzativo a quello affettivo o simbolico, che sarebbe evidentemente negativo, confusivo. Un altro conto è se si utilizzano capacità maturate in un'altra esperienza ma positive anche nella relazione di lavoro. All'accusa di 'fare la mamma' si potrebbe rispondere -come ho visto fare da una dirigente-: E allora? Non è così che si fanno crescere le persone? E' esperienza comune a molte donne manager con figli che tra le due sfere c'è un trasferimento positivo di capacità: organizzare la vita di uno o più figli avendo un lavoro impegnativo, allena a gestire la complessità, trovare soluzioni per le emergenze, dare priorità corrette ai problemi. Quello che nel management si chiama problem solving o decision taking o complexity management. E viceversa la necessaria gestione familiare richiede capacità di pianificazione e gestionali che si imparano nel lavoro di manager.

In ogni caso, anche quando a queste capacità si dà un valore positivo, il problema è che vengono normalmente citate come la caratteristica femminile da valorizzare. Come se fosse solo questo ciò che le donne portano di diverso nel management. Così in azienda si tende a confinarle in ruoli in cui assumono più importanza le relazioni. Tipicamente, nelle Risorse Umane, oppure in aree operative, dove il raggiungimento degli obiettivi dipende molto dalla gestione delle persone. Insomma, sembra quasi configurarsi una nuova mistica della femminilità in veste professionale. Mistica, perché così si finisce per lasciare le donne là dove sono sempre state, nella sfera degli affetti e delle relazioni. E si definisce una nuova divisione sessuale del lavoro in azienda.

Credo, insomma, non si possa ricondurre la differenza femminile e il suo valore in azienda a un elenco di skill specificate (e limitate). Credo che occorra guardarsi dall'avallare una nuova retorica del femminile: un femminile definito dagli uomini in funzione di ciò che interessa a loro. Perché questo significa un progetto di 'accoglimento' della diversità limitato solo agli aspetti e ai modi che possono essere integrati negli schemi aziendali e culturali già dati. Negando ogni azione tesa a cambiarli.

Oggi, invece, la vasta presenza di donne nel management porta in questo lavoro una differenza di visione che non può essere limitata ad alcuni tratti comportamentali e di atteggiamento, più o meno compatibili con il modello generale. Queste donne portano un cambiamento proprio nel modo di intendere il management. Non accettano di costringersi nei modelli maschili di riferimento, anche se con qualche aggiunta o variante, e mostrano che le regole aziendali non sono neutre e buone per tutti, che non esiste un unico stile di management.

Occorre precisare una cosa, anche se ovvia. Non tutte le donne sono uguali, come non tutti gli uomini sono uguali (e nemmeno tutte le aziende). Quando parliamo di atteggiamenti femminili o maschili, facciamo riferimento a ciò che caratterizza prevalentemente le donne o gli uomini. Sappiamo bene che ancora molte donne arrivano a posizioni dirigenziali adottando uno stile tipicamente maschile, anche perché i parametri di valutazione sono di quel tipo. Ma questo non impedisce e non riduce la portata di quanto di nuovo viene comunque dalle donne. Anzi, c'è da guardare con ammirazione quelle donne che, nonostante la forte pressione aziendale, mettono coraggiosamente in atto pratiche che da quel modello si discostano. Quello che qui importa, a maggior ragione, è proprio guardare e raccogliere la direzione di cambiamento che dalle donne emerge.

Il nuovo lo vediamo fin dal punto di partenza, cioè nel rapporto con il lavoro. Come scelta e come diversa concezione: le donne amano il loro lavoro, perché lo vedono non in modo strumentale, solo come necessità economica, ma soprattutto in una prospettiva di autorealizzazione. Questo definisce già una differenza importante, perché ancora oggi le aspettative della società non chiedono alla donna l'affermazione nel lavoro. Cosa invece imprescindibile per un uomo, che è socialmente valutato quasi esclusivamente in base al suo lavoro, alla sua affermazione nel lavoro. Perciò la decisione di impegnarsi in un percorso professionale di alto profilo, per le donne nasce non tanto da pressioni esterne, ma da una forte motivazione personale. Si potrebbe dire che mentre un uomo deve, una donna sceglie di fare carriera. Accanto a questo investimento forte nel lavoro, c'è però un altro aspetto di novità, che va contro ogni stereotipo. Se oggi la realizzazione nel lavoro è imprescindibile nella vita di molte donne, non lo è a scapito del resto della vita. Questa scelta è inserita in un progetto di vita intero, a cui non si vuole, e si ritiene possibile, non rinunciare, anche svolgendo un ruolo manageriale impegnativo. La carriera non diventa l'obiettivo unico su cui si appiattisce tutto il resto, ma è piuttosto un percorso flessibile per accogliere i cambiamenti della vita, e può prevedere una molteplicità di realizzazioni.

E' su queste basi che le donne cercano un personale modo di realizzarsi in questo lavoro senza appiattirsi sui modelli dominanti, e mettono in atto tentativi di rottura delle regole aziendali in cui non si ritrovano. La differenza che le donne portano nel management sta dunque in un atteggiamento complessivo, che si manifesta nella prevalenza della persona sul ruolo, dello schema personale sullo schema di ruolo. Le donne si rapportano al lavoro prima in base alla propria visione, al proprio progetto, al proprio carattere, e solo dopo si confrontano con norme e modelli. Per gli uomini è normale adattarsi agli standard, non solo perché li fanno loro, ma anche perché costituiscono una difesa e una comodità. E' più facile dire 'si fa così' che essere se stessi lavorando. Se ci si adegua a un modo di fare consolidato, nessuno potrà dire che abbiamo sbagliato. Ma in questo modo si finisce per ingabbiarsi in modelli di management che tagliano fuori ogni capacità e ogni visione diversa.

Dalle donne vediamo invece emergere uno stile più personale, meno definito in senso organizzativo.La cosiddetta 'leadership femminile' comincia dall'essere se stesse, nel non modificare il proprio stile personale, nel non assumere atteggiamenti finti e forzati, nel non costringersi dentro corazze inadatte a sé. Quando si parla di una via femminile al management, non si tratta allora di pensare a un preciso modello, diverso, ma altrettanto fissato in codici, potenziale nuova gabbia. Piuttosto, si può parlare di un metamodello, fondato su un diverso modo di intendere l'organizzazione e il funzionamento delle aziende: la vita e le persone non possono essere fatte a pezzi, il lavoro non può essere inteso come un tempo separato, i ruoli sociali non impediscono di essere se stessi. Il potere serve ad agire per raggiungere obiettivi concreti, nell'interesse comune dell'azienda e di chi ne fa parte, non per promuovere se stessi, per esercitare dominio e controllo. Ne deriva uno stile di guida lontano dall'autorità di ruolo e dal comando. Che agisce attraverso l'autorevolezza personale, attento alle persone, capace di motivarle agli obiettivi, nella consapevolezza che se si sta meglio si lavora meglio.

Le regole che stanno alla base del modo maschile di dirigere vengono messe in discussione, e sostituite da un più semplice ed efficace stile di guida, di governo e di cura. Si apre così una nuova possibilità per le donne: abitare il mondo del lavoro senza cessare di essere se stesse. Ma si apre anche un nuovo spazio per quegli uomini che possiamo immaginare insoddisfatti delle gabbie che essi stessi si sono costruiti. La differenza femminile si mostra così non come presa di distanza, ma al contrario come costruttiva rivisitazione del mondo dell'impresa.

Luisa Pogliana (scritto per Bloom, estratto da un articolo per Leadership&Management)


1 commento:

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