martedì 11 maggio 2010

Un incontro alla Casa di Vetro di Milano: "Per le donne il lavoro è un'arte"

Donne della realtà: lavorare in azienda è un'arte

Giovedì 20 maggio, dalle 18,30 alla Casa di Vetro di via Luisa Sanfelice 3, Milano, Alessandra Zini store manager di IKEA Porta di Roma e sua rappresentante in Valore D, Angela Di Luciano editor de ilSole24ore, Luisa Pogliana autrice di "Donne senza guscio", intervistate da Maria Cristina Koch e da Paola Ciccioli, converseranno sul tema delle donne in azienda.
Gestire il potere, reggere il successo, vivere e raccontare il quotidiano, colleghi, impegni, tempi, senza perdersi come donne è davvero un'arte, tanto bella quanto difficile.
L'evento si concluderà con un aperitivo guarnito per continuare a discutere, ragionare e gustare le relatrici e apprezzare la mostra "Vassoi d'arte", 50 vassoi IKEA che 50 artisti hanno trasformato in opere uniche. Da un'idea di Leonardo Santoli è nata una collezione di piccole opere d'arte che interpretano un oggetto quotidiano.
www.lacasadivetro.com/2010/05/10/giovedi-20-maggio-donne-della-realta-lavorare-in-azienda-e-unarte/#more-362

Per questo incontro ho preparato alcune riflessioni su questo tema, che riporto qui di seguito.

Per le donne il lavoro è arte
Ho trovato molti aspetti che danno corpo a questa 'affermazione -'per le donne il lavoro è arte'- nel lavoro che sta alla base del mio libro Donne senza guscio. Nato innanzitutto per riflettere sulla mia vita di lavoro, passata per la maggior parte in una grande azienda italiana, come direttore di una staff. E poi per documentare e discutere di cosa vuol dire veramente essere donna e manager, in una realtà aziendale ancora così escludente verso le donne. Così, partendo da me stessa, ho pensato di coinvolgere in un percorso di riflessione altre donne che vivono la stessa situazione. Ne è nata una ricerca, e questo libro ne racconta gli esiti.
Una diversa concezione del lavoro
La prima cosa importante che ho trovato in queste donne è stata la ricerca di un personale modo di realizzarsi nel lavoro senza appiattirsi su modelli dominanti, che sono modelli maschili.
Per questo ho pensato al titolo 'Donne senza guscio', perché le donne entrano in azienda senza la protezione di un'appartenenza consolidata a questo mondo. E perché accettano il rischio implicito nell'abbandonare gusci a loro inadatti, per far crescere un guscio nuovo che permetta nel lavoro una vita a loro misura.
Questa ricerca si fonda prima di tutto su una diversa concezione del lavoro e della carriera.
E qui ci avviciniamo al tema di questo incontro. Di cosa parliamo, allora, quando parliamo di lavoro?
Colpisce subito, cominciando a parlare di lavoro, del lavoro ideale per sé, non si indica tanto uno uno specifico ambito lavorativo, ma piuttosto si definiscono in modo prioritario le caratteristiche che questo lavoro deve avere. Ovvero: non importa con precisione cosa, ma si sa molto bene come.
Innanzitutto vediamo che la scelta di lavorare è data per scontata, non solo per un'autonomia economica, ma soprattutto come strumento di libertà nella vita. Il lavoro ideale è tale se, oltre la necessità di guadagnare, è una possibilità di autorealizzazione.
“Elemento indispensabile di realizzazione”.
“Consente di esprimere e valorizzare i propri talenti. Una condizione di libertà che ci permette di fare in maniera 'eccellente' proprio quel lavoro”.
“Un lavoro in cui si possa sentirsi realizzate e realizzare qualcosa”.
Certo, lavorare è in genere necessario, ma le aspettative della società non chiedono alla donna l'affermazione nel lavoro. Per l'uomo invece il modello sociale si fonda imprescindibilmente sul lavoro. Dunque per la donna la decisione di cercare un percorso professionale di alto profilo nasce da una forte motivazione personale. Si potrebbe dire che mentre un uomo deve, una donna sceglie di fare carriera. Per questo spesso il lavoro ideale viene definito 'creativo'.
“Se non è creativo il mio lavoro non mi piace e per essere creativo per forza deve uscire dalle maglie di un'organizzazione che tende all'autoconservazione”.
“Un lavoro creativo, che consente libertà di pensiero, libertà d’azione”.
“Autonomia : poter creare, applicare la fantasia alle attività, valutare tutte le possibilità e, se utile e proficuo, poter innovare”.
“Fare qualcosa che sento mio e a modo mio”.
Creatività non intesa in senso stretto. Un lavoro è 'creativo' se permette una espressione di sé e delle proprie capacità. Ecco così subito un bello squarcio negli stereotipi: che vedono il lavoro manageriale chiuso nel mondo della razionalità, della necessità e dell’aridità economica. E che, per contrappasso, intendono il lavoro 'creativo' come para-artistico, tutto pulsioni e sregolatezza.
Il lavoro manageriale, guardato dal punto di vista delle donne, può essere creativo.
Nel descrivere il lavoro ideale ricorre molto spesso, poi, la dimensione della libertà. Anche questa concezione -il lavoro come luogo di libertà- è un bello squarcio rispetto ad altri stereotipi, che intendono il lavoro come inevitabile necessità, limitazione della propria libertà.
Se guardiamo l’origine etimologica della parola ‘lavoro’ troviamo il senso di queste due concezioni. Una rimanda al lavoro inteso come attività dura e penosa (latino labor), o addirittura come tormento (francese travail, spagnolo trabajo, portoghese trabalho, dal nome di uno strumento di tortura, il tripallium). L’altra privilegia, invece, il riferimento all’energia (tedesco Werk, inglese work), alla creazione di opere, alla realizzazione di qualcosa, e anche di sé. E' questa concezione -la costruzione di sé attraverso le proprie opere- che troviamo nel pensiero delle donne.
Il che non significa che tutte vivano una condizione idilliaca nella realtà del lavoro, anzi. Ma significa qualcosa di molto creativo: per quanto stretti possano essere i vincoli del lavoro, la persona può trarne cose buone per sé e per gli altri.
Vediamo dunque una rappresentazione del lavoro che lascia ai margini il concetto di dovere come vincolo sociale, e pone al centro, invece, il piacere. La 'creativita' sta, non a caso, nel regno del piacere. E a queste donne il loro lavoro piace. Anzi, le appassiona.
“Mi sono appassionata al lavoro e mi ci sono buttata anima e corpo”.
“Sono presa da innamoramento e passione per le cose che faccio”.
“Sono entrata in una grande azienda come addetta al personale di stabilimento, ho scoperto il contatto con le persone. E' stato amore a prima vista ”.
“Dopo varie peripezie approdo a Ferrovie dello Stato. Ma ci si può innamorare, della ferrovia. Ed è quello che è successo a me; i processi, il sistema, la tecnologia, le persone molto competenti, appassionate…”.
“Può esserci un innamoramento metaforico per il proprio lavoro. E' quanto avviene a me. Io amo il mio lavoro, quello che mi dà l'opportunità di fare”.
'Passione', 'innamoramento: non stupiscono queste definizioni, data l'importanza che queste donne attribuiscono alla possibilità di oggettivare il sé nel lavoro. Per questo, parlando di lavoro, molte usano proprio il linguaggio dell’amore.
Ecco, dunque, quanto nel modo di vivere il lavoro, e lo specifico lavoro di manager, le donne sono vicine all'arte: espressione di sé, creatività, libertà, realizzare opere, realizzare se stesse.
Mi viene in mente una frase di Andy Warhol, “The best business is art”, un ottimo affare è arte (anche se facilmente viene tradotta con “l'arte è il miglior affare”, tanto è inusuale questa idea di considerare il lavoro, e il business, come arte).
Un'arte di cui faremmo volentieri a meno
Potrei fermarmi qui, ma bisogna aggiungere qualcosa. Perché, come ho detto, la realtà aziendale è spesso tutt'altro che valorizzante dei talenti e della passione che le donne mettono nel lavoro.
Così le donne devono sviluppare un'altra forma d'arte di cui farebbero volentieri a meno: affrontare e trovare ogni giorno un modo costruttivo superare una cultura aziendale ancora penalizzante per loro. Limitiamoci ad un rapido accenno.
Pensiamo ai modelli organizzativi, creati dagli uomini a loro misura, inadatti alle differenze che le donne portano in azienda. Soprattutto per l'uso del tempo, con la richiesta di una disponibilità illimitata, con rigidità e ritualità che prescindono dalle necessità reali, invece di concentrarsi sugli obiettivi e sui risultati .
Pensiamo alla maternità, che è ancora l'ostacolo principe alle prospettive di carriera, anche se in realtà vie praticabili ci sono (Ikea insegna). Così le donne vivono vite parallele, gestendo la complessità. Ma a prezzo di grandi fatiche non sempre inevitabili.
Pensiamo anche agli atti informali quotidiani, che tendono a ribadire che le donne non hanno lo stesso valore di un uomo, a ricondurle al loro essere donna prima di tutto e a prescindere dal ruolo professionale: il mancato utilizzo dei titoli di studio e gerarchici, la richiesta di lavori ancillari, la riconduzione al corpo, il doppio codice per cui quello che è apprezzato in uomo non va bene in una donna.
Di fronte a tutto questo le donne devono trovare ogni volta un modo di reagire costruttivamente ad ogni singolo episodio. Ci vuole coraggio, sangue freddo, prontezza di spirito, intelligenza. E vediamo spesso anche la capacità di agire anche sul livello simbolico, il cui potere -proprio come fa l'arte- può modificare la realtà.
“Appena assunta come responsabile del personale in una multinazionale, vado alla prima riunione con l’ head quarter: un operation meeting mensile. Siamo in dieci, io l’unica donna. Il grande capo guarda il mio capo, il mio capo capisce e girandosi verso di me dice: 'Prende nota lei, vero?' . Il sangue ribolle, l’ira fa fatica ad essere contenuta, ma dieci anni di lavoro qualcosa hanno insegnato. 'Certamente, con piacere' rispondo. Dopo un mese, di nuovo l'operation meeting. Prima che il grande capo inizi a parlare, guardo il collega alla mia destra e gli dico 'Oggi tocca a te prendere nota, vero?'. Il mio capo spalanca gli occhi, il mio collega è paonazzo. Io sorrido a tutti come se avessi detto la cosa più ovvia del mondo. E’ così che è nata l’abitudine di prendere nota a turno”.
Dunque vediamo un quadro ancora penalizzante per le donne. Eppure, la cosa più bella che ho trovato in queste donne, è non solo l'assenza di atteggiamenti vittimisti, ma il fatto che ognuna ha ha cominciato a mettere in atto tentativi di rottura delle regole aziendali che ostacolano le loro potenzialità, senza deleghe e senza alibi. Questa, per me, è veramente una coraggiosa opera dell'ingegno. E, rispecchiandoci nelle altre, si rafforza la fiducia di poter trovare percorsi praticabili nonostante i contesti sfavorevoli. Di poter realizzare la nostra opera d'arte: noi stesse nel nostro lavoro.

Luisa Pogliana

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