“Come ormai prassi nelle grandi multinazionali, nella mia azienda adottiamo politiche attive di Diversity management, che nel nostro caso in Italia hanno riguardato finora sostanzialmente le donne. Con l’obiettivo di avere una buona presenza di donne in tutti i livelli organizzativi. Operando nell’ambito di queste iniziative, ho avuto particolare attenzione sia all’inserimento di donne dall’esterno attraverso assunzioni, sia alle promozioni interne all’organizzazione, con il risultato di aver assunto o promosso diverse donne in posizioni di responsabilità e aver visto “spostarsi” l’ago della bilancia della distribuzione del potere. Questo risultato è stato ottenuto agendo in diverse direzioni.
Innanzitutto quello di aumentare la presenza di donne in ruoli di responsabilità è diventato un esplicito obiettivo della Direzione del Personale che è stato assunto con interesse e sfida sia dal team di recruitment, sia dagli HR business partner. Per essere efficaci nella ricerca di manager donna abbiamo richiesto precisi impegni agli head hunter ingaggiati: per qualunque ricerca loro assegnata, ci deve essere sottoposta una short list di candidati che contenga almeno una donna; qualora non ne avessero di adatte, devono comunque presentarci una donna che abbia le caratteristiche più vicine a quelle ricercate. In questo modo possiamo comunque conoscere delle manager di qualità, che magari non sono adatte per quella specifica posizione, ma che possono essere tenute in considerazione per potenziali posizioni future. O addirittura posso strutturare diversamente l'organizzazione del settore interessato in modo da inserire quella donna in una posizione importante per l’azienda ed adatta alle sue capacità. Questa valutazione organizzativa può essere effettuata, ovviamente, anche per valorizzare le capacità o il potenziale di donne già presenti in azienda.
Un grande contributo all’individuazione di donne di valore è stato dato anche dai manager dei vari settori. Abbiamo avviato un progetto di talent mapping e chiesto ai manager di segnalarci nomi di donne che conoscono e considerano adatte per le nostre “open positions” o per la nostra organizzazione in generale. Se i nomi di donne non emergono immediatamente, chiediamo di ampliare il terreno di esplorazione e di pensare a brave manager che sarebbero proprio adatte per la nostra azienda. In questo modo svolgiamo un’opera di educazione, si crea una cultura: fare questa domanda, chiedere in maniera esplicita di pensare ad una donna, significa portarli a considerare le donne e vederne le qualità. Dopo aver fatto queste domande alcune volte, i manager si trovano poi a pensarci spontaneamente. I pensieri strutturano la realtà, i collegamenti mentali che sono stati attivati si riproducono, diventano presenti nella routine quotidiana.Ma non ci limitiamo a questo. Per conoscere le donne segnalate organizziamo degli eventi informativi e di networking che consentono di stabilire un contatto diretto e di creare un bacino di donne capaci che possano essere valorizzate, con beneficio per loro e per l'azienda.
E questo è solo l’inizio. Non so se siamo stati fortunati o se le donne operano prevalentemente in questo modo, ma stiamo assistendo a dei cambiamenti nell’agire manageriale. Le donne che abbiamo inserito in posizioni di responsabilità hanno una buona capacità di usare il loro ruolo 'di potere', nel senso positivo di far accadere le cose, e lo fanno rispettando e valorizzando le persone. Anche quando devono prendere compiti e decisioni difficili. Faccio un esempio: se una persona non lavora bene, si può affrontare la questione in diversi modi. Queste donne parlano apertamente con la persona di questa valutazione non positiva, e lo fanno però in un modo costruttivo e rispettoso, in modo da non far perdere l'autostima nelle proprie capacità. Risolvono il problema magari spostando la persona ad attività più adatte alle sue caratteristiche, facendola sentire in grado di fare bene in un altro ruolo. Non che gli uomini non sappiano fare lo stesso, ma più spesso nella mia esperienza, se c'è un compito sgradevole, spesso evitano di affrontarlo o delegano a qualcun altro, o non hanno pazienza e comunicano la decisione in modo asciutto e impacciato, facendola così apparire punitiva.Succede anche un'altra cosa. Queste donne adottano una modalità cooperativa invece che competitiva. La valorizzazione delle capacità e responsabilità individuali non è tesa a rafforzare il proprio territorio (questa è un po' la sostanza dell'atteggiamento competitivo). E' tesa al raggiungimento di un risultato che, se è positivo, viene ascritto a merito di tutti. L'atteggiamento è questo: ragioniamo su come raggiungere un risultato, e se lo raggiungiamo ne beneficiamo tutti. Questo agire cooperativo è possibile quando si riesce a non sentirsi minacciati da chi agisce in modo competitivo ed è nello stesso tempo contagioso perchè non sollecita o attiva reazioni competitive. Si può così davvero cambiare molto il modo di affrontare le situazioni, con un orientamento ad un risultato più ampio rispetto alla propria specifica responsabilità, più complessivo rispetto a quello individuale. Assistiamo ad uno spostamento dell'attenzione dall'io al noi. Non è un noi che elimina le individualità, anzi le esalta, ma rispetto ad un interesse collettivo. Vedo accadere anche un altro cambiamento: quando le donne cominciano a introdurre questi comportamenti, essi si diffondono, anche gli uomini cominciano ad adottarli, hanno meno paura di abbandonare comportamenti competitivi. E' questo il valore della diversità, che cambia la realtà.
Un'altra direzione su cui abbiamo lavorato è garantire lo sviluppo professionale delle donne al ritorno dalla maternità. Ci sono molti modi per affrontare ogni singolo caso: a volte si può ristrutturare il settore senza sostituire la donna in maternità che riprenderà la sua responsabilità al rientro, a volte invece le situazioni cambiano rapidamente e al rientro è necessario un cambio di ruolo. L'essenziale è che ciascuna donna venga sempre tenuta in considerazione dall'azienda. Molte le strade possibili, ma l'azienda deve tener conto che ogni donna ritornerà dalla maternità, e quindi deve essere mantenuta nei normali processi di pianificazione delle carriere. A volte accade che le donne al ritorno in ufficio si sentano più fragili rispetto all'azienda e temano le nuove proposte come un pericolo. In questi casi bisogna lavorare con loro per chiarire le prospettive, l'opportunità che contengono, perché creare l’apertura al nuovo quando non è possibile riprendere il ruolo precedente. In questi casi cerchiamo di definire ruoli che permettano di tenere conto meglio delle esigenze legate all'avere un bambino piccolo e che costituiscono ottime opportunità di crescita professionale e transizione tra fasi diverse della vita personale senza dover operare forzature ai naturali cicli di vita. Avendolo sperimentato come mamma, so che non sarà mai possibile recuperare i giorni non trascorsi con il proprio bambino piccolo, mentre dal punto di vista professionale due o tre mesi in più o in meno possono essere tranquillamente recuperati, non si perde nessun 'treno'. Anzi, è molto meglio tornare al lavoro quando ci si potrà dedicare in modo più sereno, potendo affidare ad altre persone il bambino dopo la fase del maggior bisogno reciproco del bambino e della mamma e portando con sé una nuova maturità di vita.
In fondo, si può dire che dietro tutte queste direzioni di lavoro il mio indirizzo è di far sì che organizzazione e persone, interagiscano e si arricchiscano reciprocamente”
Patrizia Di Pietro, HR Director GE Capital
“Una persona molto speciale mi aveva detto che la maternità è una grande opportunità professionale. Fino a quel momento, però, il mio percorso professionale aveva viaggiato sostanzialmente per imitazione dei modelli (maschili) che avevo visto agire e, così, avevo pensato che fosse solo un trucco per farmi mollare. Una ovvia specificazione: nei modelli maschili che avevo imitato fino ad allora, non era mai stata gestita l’assenza per maternità del manager perché tutti i manager che avevo visto erano uomini! E quindi da chi potevo copiare? La persona speciale mi aiutava in un momento in cui stavo prendendo in carico una nuova responsabilità e stavo faticando parecchio. Faticavo soprattutto perché non riuscivo ad accettare il fatto che l’azienda mi chiedesse di più, proprio in un momento in cui io avrei voluto togliermi: come avrei potuto perseguire il mio progetto di vita di avere un figlio proprio nel momento in cui la mie responsabilità professionali andavano crescendo significativamente? Per lunghi mesi, sensi di colpa, tentativi di essere sorda al gradevole pensiero di avere un bambino, voglia di licenziarmi o almeno di dire che no, proprio ora, non potevo farcela, si alternavano in me e stavo male. “Nella vita bisogna fare delle scelte” “per una donna il lavoro migliore è l’insegnante” “un bambino deve stare con sua madre” erano alcuni dei pensieri che danzavano a turno e creavano un circolo vizioso da cui la mia mente non riusciva ad uscire. Poi la persona speciale mi ha detto quella follia speciale: “ non ti rendi conto di quanto la maternità possa essere un ottimo training per sviluppare la tua managerialità”. Lì per lì ho pensato ad un inganno. La maternità come una sfida manageriale o la maternità per assolvere ai miei doveri manageriali meglio. Grandissima strategia, ma sul fatto che ci fosse pochissima sostanza in questa idea, ero assolutamente convinta. Ma quando mai? La maternità in azienda è un problema da gestire, la maternità è un costo, la maternità crea disagi organizzativi, come si fa se non si è presenti? Poi se tornando in azienda le donne 'restano indietro', cosa ci possiamo fare? Se nel frattempo qualcuno le ha sostituite, di cosa ci vogliamo accusare ? Il mondo gira e non può aspettare i cambi di pannolino. Inoltre il mio pensiero era la responsabilità verso le persone che coordinavo. Cosa accadrà mentre non ci sono? Tutti i buchi che tappo saranno nodi che verranno al pettine, la struttura sarà nuda e le persone in balia delle correnti. Sarà un macello e nella migliore delle ipotesi mi chiameranno tutti i minuti al telefono mentre io non ci sono.
Passato un po’ di tempo questa idea balzana ha iniziato a lievitare nella mia testa, così come ha iniziato a fare la mia pancia. E come sempre accade, gestire il presente è stato meno difficile e ansiogeno che gestire le paure relative al futuro che ti potrà accadere ma che, spesso, non accade mai. Quando, quindi, la maternità non è stata più un’ipotesi ma una realtà, parlando con un’altra persona speciale, ho scoperto che anche lei la pensava così e che ora si trattava di capire come fare in modo che la mia azienda sfruttasse al meglio questa opportunità che si presentava. Esattamente come qualsiasi altra opportunità di business. Il fatto che 'il capo' sarebbe mancato per un certo periodo, era una paura da esorcizzare, innanzitutto da parte mia, ma, soprattutto, era un’evenienza da organizzare e capitalizzare: ciascuno dei miei collaboratori doveva capire che poteva essere l’opportunità di 'essere messi alla prova', certo, in un’occasione insolita, ma sempre di opportunità si trattava. Ringrazio davvero il cielo di tutto quanto è successo perché attraverso quell’assenza forzata è, per esempio, emerso il tema dell’incapacità (non nell’accezione valutativa del termine, ma nel senso del non 'essere capaci') delle persone, ma in generale dell’azienda, ad agire schemi diversi da quelli gerarchici 'collaboratore – capo'. E’ questo uno schema che al giorno d’oggi crea rallentamento nella catena decisionale, rallenta l’execution e tarpa la capacità di innovare. Devo dire che la contingenza di organizzare la mia assenza è stata il driver prevalente almeno nella prima fase del progetto: avevo urgentemente bisogno di trovare una soluzione per me stessa, per i miei collaboratori, per i miei capi. Se qualcun altro fosse intervenuto a proporre soluzioni anche in assoluta buona fede, sarebbe potuto essere un disastro: un sostituto? una variazione organizzativa? un’assenza per maternità che era in realtà una presenza? Non mi pareva ci fossero altre buone soluzioni se non lavorare intensamente a preparare le persone ad usare il periodo della mia assenza come opportunità, soprattutto per i collaboratori e per la mia azienda. Sarei bugiarda se dicessi che fin dall’inizio avevo in animo di arrivare fin dove siamo arrivati e che ero consapevole che quello sarebbe stato l’obiettivo prevalente del mio mandato di manager almeno per gli anni a venire. No, non avevo la più pallida idea di dove saremmo arrivati, ma l’imbocco del sentiero mi piaceva e mi incuriosiva e, soprattutto, non mi pareva ce ne fossero altri.
Così è iniziato un periodo carico di fortissime emozioni (almeno da parte mia) in cui con l’aiuto di un bel lavoro di team building abbiamo tessuto la rudimentale trama di un modello che nei mesi successivi avremmo sperimentato: ogni mese ci trovavamo in riunioni in cui venivano dette e ridette le stesse benedette cose, ma da tanti punti di vista diversi, in tanti modi differenti, a partire da stati d’animo e stati di maturazione del gruppo diversi. Si commentavano situazioni, difficoltà, problemi e dubbi recenti che si rileggevano sempre a partire dagli stessi concetti di team, di integrazione, di obiettivi comuni, di metodo condiviso e di orgoglio di fare una cosa innovativa. Quando ho lasciato i miei collaboratori in azienda, il concetto di lavorare in team era stato ampiamente sondato, discusso, contestato, e di nuovo definito. Ma il tempo non era stato sufficiente (e forse mai lo sarebbe stato) per far capire a tutti come potevamo in pratica realizzarlo: sì, tutto bene, ma in pratica cosa devo fare? Perché devo confrontarmi con Pippo per fare una cosa che non gli compete e oltretutto io ne so più di lui ? Così per dare un riferimento pratico e concreto ho lasciato i miei collaboratori con una sorta di 'mappa' delle relazioni e delle responsabilità. Per esempio, per quanto riguarda questioni inerenti questa area, Tizio è il referente decisionale (doveva proprio decidere lui al mio posto) e per decidere si deve consultare con Caio. Se Tizio e Caio non si decidono, c’è il Big Boss da cui andranno già preparati oppure ci sono io al telefono o al Blackberry. Al big boss ho dato un nome a cui fare riferimento in mia assenza (che peraltro non è mai stato contattato). Poi c’è stata finalmente la maternità. Questo schema è andato in onda. Non saprei dire se ha funzionato o no, o, almeno, bisognerebbe definire il funzionamento rispetto a che cosa: durante la mia assenza, il settore ha raggiunto quasi tutti gli obiettivi di business e ha ottenuto risultati senza precedenti, ma alcune persone si sono prese sonore legnate dai big boss e dalle altre strutture, abbiamo realizzato inaspettatamente e alla velocità della luce il prodotto più di successo degli ultimi tempi, ma abbiamo avuto difficoltà relazionali con la rete di vendita, un mio collaboratore è stato promosso ad altro incarico ma è stato tolto dalla mia struttura, il mondo ha raggiunto la consapevolezza che una banca può fallire (Lehman Brothers) ma abbiamo organizzato la migliore operazione di recupero 'contratti con emittenti falliti' del mercato.
Quando sono rientrata il must è stato: ora andiamo avanti, non rientriamo di nuovo negli schemi classici perché, anche se l’emergenza è finita, perderemmo il vantaggio competitivo che ci ha dato questa situazione. Il lavoro di team è quindi proseguito. Partendo, quindi, da un lavoro volto a gestire l’assenza, siamo arrivati ad un nuovo modo di agire l’azienda. Dal mio punto di vista, è stato un fatto importantissimo perché è stato il punto d’innesco di un cambiamento profondo: lo schema d’emergenza elaborato per prendere decisioni in mia assenza era una specie di 'scheletro di riferimento' del team. Tutto il lavoro di costruzione e di consapevolezza sui concetti del team, è stato accresciuto al mio rientro dalla maternità: partendo dall’esperienza che le persone e io avevamo fatto in questo periodo speciale, e cercando di capire cosa ci lasciava in dote e come questa sperimentazione poteva evolvere. Il team, quindi, è cresciuto dopo il mio rientro: quando, avendo per forza provato a fare qualcosa di diverso, ci siamo accorti che era possibile e non male, continuare su quella strada con l’orgoglio di fare una cosa innovativa e 'disruptive'. A partire da allora, attraverso altri incontri, abbiamo cercato di consolidare il concetto e la pratica del team intendendolo come un modo diverso di gestire l’azienda. Si è cercato di andare oltre gli slogan ormai inflazionati in ogni convention per ridare senso e pratica ad una parola che come spesso accade se corre sulla bocca di tutti, si spoglia almeno, un po’, del suo vero valore. Così, si arriva alla definizione del team che è più facile dire cosa non è, prima di dire che cosa è: non è buonismo, non è cameratismo, non è socialismo, non è fanatismo, non è egualitarismo. E’ massima responsabilità verso gli obiettivi comuni, è una diversa leadership, è fatica non comune, è mettersi a disposizione degli altri e chiedere agli altri, è crescita professionale individuale e aziendale, è gestione dell’azienda fuori dalle logiche di potere (distorsive) che la avvolgono e che i capi tanto amano.
Il percorso sul team e sulla sua gestione continua tuttora cercando di renderlo il più possibile pervasivo a tutti i livelli dell’organizzazione che coordino. Organizzazione che nel frattempo si è allargata ed ampliata inserendo altre persone ed altri obiettivi di business, che è stato più semplice approcciare con l’esperienza e la competenza acquisita in tema. Un anno dopo il rientro dalla maternità le mie responsabilità in azienda si sono, infatti, ampliate, penso per tante ragioni, ma non dimentico la frase che il mio capo mi disse quando mi illustrò la proposta di 'allargamento': “Ormai pedalavi in scioltezza”.
Anna Deambrosis, Direttore Tutela della Persona e Previdenza di Reale Mutua
------------“L’organizzazione del lavoro è considerata da tempo una delle problematiche da affrontare per consentire alle donne la continuità nel lavoro, quando questo si scontra con le esigenze di dedicare tempo ai figli e alla famiglia: due ambiti che si contendono il tempo di vita. Con la fatica di coniugare i tempi e ritmi diversi in una continua altalena e con incredibili equilibrismi. Per questo le aziende all’avanguardia si sono spese con soluzioni che in qualche modo vanno incontro ai tempi delle donne: job sharing, part time verticale, lavoro telematico etc... Pur riconoscendo il valore di queste politiche, che, se non altro aiutano a risolvere problemi contingenti, queste non mi hanno mai convinta del tutto: le organizzazioni tendono a semplificare la portata di tali problemi e queste forme di part time diventano lo strumento più facile su cui scaricare la risoluzione di problematiche complesse.
Il vero nocciolo che ritengo fondamentale è piuttosto l’identità lavorativa di ogni donna. La società, l’azienda e spesso le stesse donne tendono ad affrontare il problema complesso della cura con la modalità più semplice: consentiamo alle donne di stare più tempo a casa, a discapito dell’identità di lavoratrice. Ma chi ha vissuto il distacco dal proprio ambiente di lavoro a seguito della nascita di un figlio, sa che è un’esperienza difficile, malgrado le gratificazioni di essere madre. Da un giorno all'altro passi ad essere estraniata da quello che si è vissuto intensamente fino a pochi mesi prima, si sperimenta un’esperienza di solitudine e di isolamento poco analizzata e quasi mai condivisa con altre donne. Il motivo è chiaro: come può una giovane madre dire di sentire la mancanza di un ufficio, delle relazioni con i colleghi, degli scontri con il proprio capo, se sta a casa a curare il proprio figlio? I sensi di colpa non mancano. Mentre un giovane padre ha tutta la solidarietà dei colleghi che annuiscono comprensivi ad affermazioni quali: 'preferisco lavorare che stare a casa, perché almeno qui mi riposo'. Le donne si trovano catapultate in una dimensione che le estranea dalla loro vita di lavoro e che alla fine può portare a rinunciare alla propria identità di lavoratrice( totalmente, o accontentandosi di lavori meno qualificati, come di solito avviene lavorando part time), perché quella di madre è indubbiamente più importante, sia personalmente che socialmente. Ma in realtà non si ha la possibilità di scegliere veramente, di scegliere tutt'e due queste parti di sé. E’ indubbio che un bambino piccolo ha bisogno di una presenza genitoriale costante, ma guarda caso chi deve rinunciare alla propria identità lavorativa è la madre; quando si pone il problema di chi mette da parte non solo la carriera, ma la propria identità nel lavoro è sempre la madre. Il problema dell’organizzazione del lavoro per i genitori si pone come un problema delle donne e non delle famiglie.
Nella mia esperienza personale ho vissuto questo percorso, ma sono stata fortunata, in quanto non mi è stato dato, malgrado me, la possibilità di rinunciare al mio ruolo professionale. Quando, giovane madre con un bimbo piccolo, avevo messo da parte la mia vita professionale, sono stata riportata alla necessità di trovare il giusto equilibrio tra la mia vita familiare e la mia identità lavorativa. Paradossalmente, l’aiuto mi è arrivato dal grande Capo che ha rifiutato il rinnovo del part time, come per dire 'adesso basta'. Quello stop alle mie paure è stato salutare, mi ha messo in condizione di valutare le mie priorità, dare loro importanza, e mettendo ogni cosa al suo giusto posto. Mi ha aiutato a dare un valore alla mia vita lavorativa e al mio valore di donna. Riflettere sul mio percorso non sempre equilibrato, mi ha consentito di non perdere di vista i miei obiettivi personali, che sono solo i miei. Questo percorso è stato difficile, e non si è mai concluso: quando i normali problemi familiari si scontrano con il mio tempo di lavoro, la tentazione di risolverli con la maggiore presenza è tutt'oggi la risposta ovvia, ma non sempre quella giusta.
Come la negazione alla mia richiesta di prolungare la presenza accanto a mio figlio mi ha aiutato a trovare la mia strada, così ho fatto con le mie collaboratrici -importanti per il nostro gruppo- che richiedevano il part time. L'alternativa che avevo era questa: rinunciare a loro, alla loro professionalità, oppure trovare una soluzione diversa con loro. Non ho dato per scontato la semplice concessione del part time che le avrebbe poste fuori dal ruolo professionale, ho parlato con loro, ho chiesto di riflettere sul valore che davano alla loro vita lavorativa. E quando questo è avvenuto, ho cercato poi di trovare insieme degli aggiustamenti che non avrebbero apportato cambiamenti significativi allo svolgimento dell'attività, ma molto nelle loro vite (aggiustamenti che a me non erano stati comunque consentiti). In particolare, ho ridefinito i loro ruoli concentrandoli sulla parte più qualificata, eliminando i compiti meno importanti, e riorganizzando il lavoro del gruppo per consentire l'inserimento del part time. Nel far questo ho posto però delle condizioni: avrebbero dovuto essere parte integrante del gruppo, non isolarsi e non abbassare le prestazioni. Questa chiarezza ha funzionato, e per la prima volta abbiamo parlato di identità nel lavoro, di quanto è necessario sentirsi parte di un lavoro comune e avere relazioni positive, di quanto la propria identità si costruisce anche attraverso il lavoro con gli altri. Sicuramente quello che ha giovato più di tutto è stato aiutarle a riflettere su come si sarebbero sentite meglio nel lavoro, se lo avesse affrontato con l’obiettivo di trarne un riconoscimento per le loro capacità, applicare i propri talenti al lavoro oltre che alla gestione familiare.
Nella mia esperienza l’organizzazione del lavoro è importante per la vita lavorativa delle donne, ma non può essere l’unica modalità, la soluzione va gestita a più livelli. Il lavoro delle donne deve avere valore e deve essere considerato prezioso per la differenza che porta nell’azienda: è necessario crederci. Per un’organizzazione è più semplice concedere il part time, spostare le persone su competenze meno centrali e puntare su altre risorse: questa è la modalità consueta. Chi ti chiede il part time, forse, ti sta dicendo che rinuncia al valore che per lei ha il lavoro perché non vede un'altra possibilità. Ecco perché penso che le donne vadano sostenute soprattutto nella fase delicata del rientro da una maternità, perché credo sia importante che ognuna possa potere scegliere e dare valore a quello che sta facendo. Tutto questo si può fare solo con la consapevolezza delle donne, parlando e cercando insieme le soluzioni. Al contrario è inutile.
Questa consapevolezza del valore dell’identità di lavoratrice, è stata importante nella gestione del mio gruppo di lavoro e la stessa attenzione è stata riservata anche agli uomini, perché riconoscere il valore dell’identità di lavoratore ad un padre che accudisce un figlio, che ne condivide la cura, è l’altra faccia della medaglia della coerenza. In questi anni ho promosso una diversa identità sul lavoro, probabilmente con varie contraddizioni, che erano le stesse che stavo vivendo personalmente.
Mi piace pensare che il miglioramento della performance lavorativa di queste persone sia in parte dovuta al giusto mix tra organizzazione del lavoro (banale part time) e l'idea della identità ritrovata, e che abbia in qualche modo giovato alla coesione del gruppo di lavoro. Sostenere l’identità professionale delle donne soprattutto nella fase delicata della maternità è fondamentale per introdurre un cambiamento nella cultura aziendale. Cambiare la cultura aziendale significa dimostrare, incoraggiare, valorizzare, sostenere l’importanza del contributo delle donne nella conduzione dell’azienda.
Questo riconoscimento del valore femminile e della necessità di sostenere l’identità lavorativa delle donne non è oggi un valore in azienda. Si assiste più spesso a una forma di tolleranza dell’assenza per maternità o al minore orario per l’allattamento, piuttosto che a un reale riconoscimento e sostegno per una fase della vita delle persone. Se questo è unito alla disponibilità delle donne a 'rinunciare' alla propria identità lavorativa, allora il quadro rimane lo stesso, immutabile nel tempo. Nella cultura aziendale continuerà a persistere l’idea che le donne costituiscono una presenza opzionale dipendente dalle esigenze della propria famiglia, e al contrario quelle che resistono sono 'eroine' o madri snaturate. Il valore dell’esperienza della maternità, le competenze che le donne e gli uomini acquisiscono dall'esperienza così importante di avere un figlio, resta inespresso, inutile in azienda, se non confacente ai ritmi e dettati dell’organizzazione del lavoro. Mentre potrebbe arricchire anche la vita aziendale.
Se oggi è difficile fare questo ragionamento in azienda, almeno le donne con responsabilità aziendali hanno il compito di valorizzare la presenza delle donne e di dare sostegno. E nel fare tutto questo costruire la propria autorevolezza per realizare un significativo cambiamento nella cultura aziendale.
Il progetto è entrato a regime da qualche tempo e ho avuto modo di misurarne efficacia e gradimento. Bene, nel triennio 2008-2010 sono rientrate al lavoro il 91% delle mamme, più della metà entro i 6 mesi dalla nascita del bimbo. E non ci sono alti tassi di assenteismo.
Ma, rispetto alla maternità, aumentare la base di inclusione delle donne non basta. Il passo successivo è supportarne la crescita. Nella mia azienda l’80% del personale, selezionato in base al merito, è costituito da donne. Dunque mi sono chiesta come supportare i profili meritevoli in un momento particolare della vita. Perché se di queste donne non ce ne fosse neanche una nel comitato di direzione o tra i dirigenti, l'azienda si giocherebbe la metà delle opportunità di essere competitiva. La partita si gioca qui, sulla partecipazione alla scelta delle strategie. L'azienda ha il dovere di chiedersi cosa si può fare.
Innanzitutto bisogna provare a valorizzare modelli di leadership diversi. Partiamo dalle donne. Se ho l’opportunità di crescere all’interno dell’organizzazione e mi devo riferire a un modello, osservare ad esempio come si fa il capo, i miei modelli saranno prevalentemente maschili: le donne provano un senso di solitudine, se devono confrontarsi solo con modelli maschili che per lo più rifiutano. Le donne esprimono più spesso l’esigenza di ricevere un supporto maggiore dal punto di vista del credere in se stesse. Allora ho cercato di moltiplicare le occasioni di mentorship da un lato, o di utilizzare metodologie di coaching che aiutino nello sviluppo individuale. In assenza di un modello di riferimento, l’attività di coaching può essere molto efficace e si notano grandi benefici soprattutto in termini di autoconsapevolezza del valore delle donne. Ecco, questa è un’azione concreta che le aziende possono mettere in atto: oggi nella mia azienda il 43% delle posizioni di senior management è occupato dalle donne.
C'è un altro tema importante: fare in modo che le persone abbiano un buon equilibrio tra vita professionale e vita privata (figli o non figli, vale per tutti). Per questo il criterio che ho portato avanti è valutare i risultati e non il tempo passato in azienda, fare meno giochi politici e più fatti, imparare a usare in modo intelligente la tecnologia che aiuta a lavorare indipendentemente da dove si è.
Questi sono tutti elementi che aiutano a snellire l’organizzazione, aiutano le donne e consentono la crescita di modelli di leadership differenti. L'importanza di questo approccio per me consiste nel valorizzare il lavoro femminile, puntando anche a incidere sulla cultura. Portare avanti politiche che modificano la cultura dell’agire quotidiano: è il più ambizioso degli obiettivi”
Alessandra Rizzi, HR Director, Randstad Italia, al momento di questa esperienza, oggi Chief Operations Officer, Staffing & Inhouse Concepts
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