mercoledì 20 maggio 2009

Articoli: Potete fidarvi delle donne


Quando lavoravo nell'azienda precedente, ci fu un momento di crisi molto seria. Fui convocata dal mio capo, mi disse che contava molto su di me, perché ero tra gli elementi migliori. Io uscii tutta orgogliosa di questo atto di stima e di fiducia, e mi impegnai in modo straordinario per diversi mesi. Quando si videro i primi segnali positivi, mi espresse tutta la sua soddisfazione per il mio lavoro: ero stata bravissima. E io usci dalla sua stanza felice. Non ebbi altro”.

Ecco: un'azienda in crisi e la reazione di una sua dirigente. L'interesse dell'azienda prima di tutto. Normale? Ad un uomo non s1arebbe mai successo. Un uomo avrebbe contrattato prima e preteso dopo. Certo, si potrebbe liquidare l'episodio facilmente e con un po' di superiorità: la solita incapacità di chiedere delle donne. Che è verissima, problematica, e le donne stesse ritengono che questo sia uno degli 'errori' più importanti nella loro vita di lavoro.
Eppure, molte volte ciò che si chiama errore è un pregio inestimabile, non valorizzato, anzi, spesso strumentalizzato. Non siamo solo ingenue e incapaci se non puntiamo tutto sui soldi. Dentro questo episodio si possono leggere anche cose ben diverse, e su cui riflettere, soprattutto in tempi di crisi gravissima, che non dovrebbe consentire di trascurare nulla.
Bisogna partire dalla base. Innanzitutto la scelta di fare un lavoro qualificato e impegnativo non è un obbligo sociale per una donna. Certo, nella maggioranza dei casi lavorare si deve, ma la decisione di cercare un percorso professionale di alto profilo nasce da una motivazione personale, da quello che si vuole essere. Per un uomo, invece, il modello sociale si fonda imprescindibilmente sul lavoro, sul successo nel lavoro. Si potrebbe dire che mentre un uomo deve, una donna sceglie di fare carriera.
Basterebbe questo per dire che se è arrivata lì ha già superato condizionamenti sociali e filtri aziendali che un uomo non conosce nemmeno. E quindi è due volte più preparata e due volte più motivata. Ma diversa è anche l'aspettativa di queste done verso il lavoro, la loro concezione del lavoro.
Il lavoro a cui ambiscono, il lavoro 'ideale' che perseguono comporta benefici che vanno ben oltre il guadagno economico, oltre la remunerazione in denaro. Ciò che queste donne vogliono dal lavoro riguarda soprattutto le possibilità di autorealizzazione. Il lavoro assume un valore intrinseco, un ruolo primario, orientato alla costruzione di sé, della propria identità.
Il lavoro così inteso esprime valori diversi da quelli dominanti -concentrati su soldi e carriera- e si apre a dimensioni ampie. Coglie e intende come valore anche la dimensione sociale del lavoro. E include una dimensione etica individuale, che si manifesta con sorprendente frequenza nel modo di intendere la propria attività lavorativa. Anche per questi aspetti positivi il denaro non sta ai primi posti dei riconoscimenti attesi.

Più che la retribuzione, oggi per me è molto importante sentire che sto realizzando qualcosa per cui ‘sono nata’”.
“Non ho mai badato ai soldi. La passione, la possibilità di misurarmi con cose nuove, di apprendere, di creare, di innovare, la stima delle persone intorno e dei collaboratori, i risultati concreti mi erano sufficienti”.
“E’ importante per tutti trovare un 'senso' nel proprio lavoro per sentirsi in una piacevole situazione di espansione di sé invece che in una dolorosa circostanza inevitabile”.
“Il mio lavoro mi ha permesso di ottenere i riconoscimenti che contano per me e che consistono in quello che Maslow ha chiamato 'autorealizzazione'. In altre parole sono soprattutto io a essere contenta del mio lavoro”.

“Sentire che col mio lavoro cresce l’azienda e crescono le persone”.
“Un lavoro in cui sento la mia responsabilità verso l’azienda”.
“Un lavoro in cui sento di essere al servizio di un grande progetto”.
“Poter usare la mia intelligenza, energia, creatività per il benessere e il progresso sociale”.
“Una condizione di libertà e di armonia in cui il lavoro è l’ambito sociale in cui esprimerci maggiormente e contribuire al bene comune”.

E forse entrano in gioco anche altre dinamiche, legate a certe consuetudini di ruolo. Come il prendersi cura della famiglia: un lavoro gratuito che viene ripagato dalle relazioni affettive. Come se amore e soldi facessero 100, si potrebbe dire, e dunque dove c'è tanto amore ci possono essere pochi soldi1 . Così lo stesso meccanismo si attiva quando c'è amore per il proprio lavoro, che non motiva a cercare altro. Dove c'è soddisfazione per il lavoro, ci può essere una remunerazione economica insoddisfacente.

“Mi sono appassionata al lavoro e mi ci sono buttata anima e corpo”.
“Sono presa da innamoramento e passione per le cose che faccio”.
“E' stato amore a prima vista ed ho capito che avrei continuato quel lavoro”.
“Ci si può innamorare, della Ferrovia. Ed è quello che è successo a me; i processi, il sistema, la tecnologia, le persone molto competenti, appassionate…”.
“In genere lavoro con passione”.
“Può esserci un innamoramento metaforico per il proprio lavoro. Io amo il mio lavoro”.

In tutto questo c'è qualcosa di molto importante per le aziende (che non è non il bieco pensiero di strumentalizzare questi orientamenti per non remunerare ciò che è giusto: le donne hanno dei valori, non sono sciocche). Qualcosa di non immediatamente evidente.
Scegliere il proprio lavoro, farne uno strumento di realizzazione di sé, amarlo molto, significa che nel rapporto di queste donne con il loro lavoro c'è sempre una presenza di eros. Stiamo parlando, ovviamente, di eros come forza vitale e creativa, come passione, come piacere. Questo porta ad uno specifico femminile negli atteggiamenti verso l'azienda. Dove c'è eros c'è gratuità, c'è dono.
E questo modo di essere verso il loro lavoro coinvolge anche l'azienda, con cui le donne stabiliscono una diversa relazionalità, basata su una forte lealtà. Ecco anche un altro fondamento della dimensione etica così spesso presente nelle donne.
Vengono in mente, a questo proposito, molti episodi arrivati alla cronaca in tempi recenti, con le gravi crisi finanziarie di grandi e grandissime società. Al cui vertice, spesso, abbiamo visto top manager arricchitisi non solo con benefici economici smodati a fronte di danni smodati, ma facendo i propri interessi attraverso il loro ruolo, e a volte proprio rubando e truffando. Ma non abbiamo mai sentito che tra i protagonisti di atti simili ci fossero delle donne.
Certo, sono poche in posizioni di grande potere, ma intanto quelle poche non sono così. E comunque ci sono invece molte donne in posti con meno visibilità ma che sono posizioni chiave, quelle che fanno veramente funzionare l'azienda. Lì ne troviamo molte. E sono preziose proprio per l'attenzione agli interessi aziendali: una forma di investimento sull'azienda.
D'altra parte, senza nemmeno arrivare ai casi delinquenziali, chiunque conosca la vita aziendale sa che i manager investono una buona quota del loro tempo non a sviluppare il lavoro per l'azienda, ma a lavorare direttamente per la propria carriera e il proprio guadagno. Intessendo relazioni, facendo manovre, pensando a cosa ci guadagnano da ogni decisione possibile. Le donne pensano a lavorare, a svolgere il compito, a realizzare l'obiettivo nel migliore dei modi. Di fronte ad un problema, un uomo pensa a chi delegarlo e a come può trarne vantaggio, una donna dice 'ci penso io', e si impegna duramente per risolvere il problema.
Possiamo fermarci qui. Ce n'è abbastanza per dire una cosa che vale sempre, ma tanto più in tempi di crisi. Se dovete assumere un persona, assegnare un ruolo di responsabilità, affidare un progetto, a parità di condizioni puntate su una donna. Potete fidarvi delle donne. Potete fidarvi di più.

Luisa Pogliana
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I brani riportati sono presi da una mia recente ricerca con donne manager.

(Pubblicato su Direzione del personale, n° 1, marzo 2009)

Uno scambio con Anna Zavaritt

Anna Zavaritt:
E' vero che la base della motivazioni in azienda è diversa tra uomini e donne? Il fatto che spesso le prime lavorino per la soddisfazione e l'impegno personale, i secondi per i risultati e quindi i soldi non dipende anche da una diversa politica retributiva?
Si parla molto in questo periodo di "role modeling": è vero che una donna manager puo' avere un effetto "domino" dimostrando che "ci si puo' riuscire"?
Come si fa a " cambiare le regole del gioco " ?

Luisa Pogliana:
Le motivazioni verso il lavoro sono molto diverse nelle donne rispetto agli uomini, e anche la loro concezione di carriera e i comportamenti e le aspettative verso la remunerazione.
Bisogna partire dalla base: la scelta di fare un lavoro qualificato e impegnativo non è un obbligo sociale per una donna. Certo, nella maggioranza dei casi lavorare si deve, ma cercare un percorso professionale di alto profilo nasce da una motivazione personale. Per un uomo, invece, il modello sociale si fonda imprescindibilmente sul lavoro, sul successo. Si potrebbe dire che mentre un uomo deve, una donna sceglie di fare carriera. Quindi diversa è anche la sua aspettativa verso il lavoro.
Il lavoro a cui queste donne ambiscono comporta benefici che vanno ben oltre il guadagno economico. Ciò che vogliono riguarda soprattutto le possibilità di autorealizzazione. Il lavoro assume un valore intrinseco, un ruolo orientato alla costruzione di sé, della propria identità. Anche la concezione di carriera è diversa, vista più come realizzazione di un progetto di vita complessivo, che non esclude tutto il resto della vita.
E' piuttosto questo a incidere sulla loro retribuzione, che non viceversa. Le donne non chiedono, è un problema noto e confermato, per mille motivi. L'educazione tradizionale e sociale che reprime ogni forma di affermazione di sé, ogni richiesta e attenzione per sé. La paura che la contrattazione rovini la relazione con la controparte. La bassa autostima, che le fa sempre dubitare del proprio valore. Contano anche dinamiche legate a consuetudini di ruolo, come il prendersi cura della famiglia, un lavoro gratuito ripagato dalle relazioni affettive: come se amore e soldi facessero 100, e dunque dove c'è tanto amore ci possono essere pochi soldi. Lo stesso meccanismo si attiva con il proprio lavoro: dove c'è passione e soddisfazione per il lavoro (cosa tipica delle donne che scelgono e amano il loro lavoro), ci può essere una remunerazione economica insoddisfacente. In più le donne hanno verso l'azienda un'aspettativa meritocratica: il lavoro ben fatto sarà visto, apprezzato, remunerato. Così non valorizzano il proprio lavoro, non si fanno pubblicità, e il loro lavoro finisce così per passare sotto silenzio.
Si potrebbe continuare molto a lungo su questo problema, perché gli effetti sono disastrosi: se non si chiede abbastanza il nostro valore agli occhi dell'azienda è quello di cui ci siamo accontentate, e in più l'azienda saggia il carattere, e continuerà non solo a non dare, ma a valutare negativamente le doti manageriali di quella donna: la capacità di contrattare, di farsi valere è un dote manageriale.
Per quanto riguarda il role modeling, è ovvio che aiuta, incoraggia. Una cosa di cui le donne sentono molto la mancanza è proprio quello di modelli femminili con cui confrontarsi, che mostrino una via diversa, in cui trovarsi più a proprio agio, e più si arriva a posizioni alte in azienda più si è sole. Ma vedere altre che 'ce l'hanno fatta' funziona davvero solo a certe condizioni. Intanto se una donna si afferma mettendo in campo caratteristiche maschili, adeguandosi al modello unico maschile (come è stato soprattutto nella prima ondata di donne manager), questo è se mai una conferma che per arrivare lì non si può restare donne. Conta invece se quella donna ha raggiunto una posizione importante restando se stessa, mantenendo e valorizzando le sue caratteristiche femminili, un diverso stile di leadership -come si dice molto-, e anche non perdendo per strada il resto della sua vita, per esempio, i figli, l'amore. Allora questo dice molto più chiaramente che si può, e mostra come, mostra un modo diverso di essere leader in cui tutte possono rispecchiarsi e trovare strumenti. Conta infine una cosa importante: la relazione che si può stabilire con altre donne. Se questo percorso non resta un fatto individuale, ma viene messo in circolo, e se viene sostenuto da altre donne, allora crea diventa un passo avanti per tutte. Perché le conquiste individuali che restano tali non cambiano realmente le regole aziendali che penalizzano le donne. Diventano un'eccezione (che conferma le regole), che riguarda solo una persona, e che può essere cancellata, rimangiata in qualunque momento. Se restano e sono gestite come fatto individuale, può anzi rafforzare la bassa stima di sé che molte di noi si portano silenziosamente dentro: “ecco, lei sì che è brava, sono io che non sono capace, che sono solo un bluff”.
Così arriviamo a parlare di come cambiare le regole, domanda per cui ovviamente non c'è una risposta bell'e pronta né tanto meno semplice. La diversità femminile porta a sovvertire i codici, l'organizzazione del lavoro, i tempi e le modalità di relazione. Quello che ho visto io e ho ritrovato nella mia ricerca-libro, è la capacità di molte donne di portare nel loro ruolo manageriale la loro differenza, dandole valore e affermandone il valore. Non ignorano i vincoli entro cui si muovono, ma agiscono tenendo conto di come sono loro e di cosa vogliono, e ogni giorno cercano di allargare i confini del possibile e dell'accettabile. Quello che possiamo fare, dunque, è non accettare che le regole siano comunque più forti, che si debba inevitabilmente adattarsi.
Certo è difficile cambiare da sole, per questo è importante cercare relazioni con le altre donne. Parliamo di network, là dove ci sono, ma anche, più semplicemente, di stabilire relazioni con altre donne nella stessa situazione. Se ne ricava subito aiuto e forza, e insieme ad altre si acquisisce più potere di incidere sulla realtà. Queste relazioni fondate su interessi comuni, sul sostegno e lo scambio reciproco, possono essere un moltiplicatore di forza, uno strumento potente di cambiamento per tutte.

(Sul blog La vie en rose, 13 maggio 2009)

Articoli: Donne e potere in azienda: Tutta un'altra storia


Quando si parla di come le donne possono o dovrebbero organizzarsi nel modo del lavoro per acquisire potere si parla in genere di lobby femminili o di networking. In realtà in Italia troviamo dei veri network solo in poche multinazionali dove questa struttura è quasi prevista dall'organizzazione aziendale. E quanto alle lobby, troviamo organizzazioni con caratteristiche di networking e lobbystico, o gruppi costituiti attorno a persone rilevanti per la loro attività su questi temi. Ma sono fenomeni limitati, a volte piuttosto elitari. Dunque, invece che partire da qui, mi sembra utile vedere come si manifesta per le donne il rapporto con il potere in azienda. Perché è questa la base per ogni ragionamento su questo tema.
Prendo alcuni spunti da una mia ricerca recentemente condotta.
Il cattivo o inadeguato rapporto con chi ha il potere, con i giochi di potere, con le dinamiche 'politiche' è uno dei limiti ed errori principali che le donne si attribuiscono rispetto al loro lavoro.
Ignorare, non prestare attenzione, non saper vedere e gestire i rapporti di potere e politici : c'è in generale una difficoltà delle donne a capire i meccanismi non espliciti del potere. Forse legata alla minor pratica di queste cose, forse all'attitudine a lavorare badando alla sostanza del lavoro piuttosto che al modo con cui costruire e tutelare la propria posizione.

Sono abituata a concentrarmi troppo sui risultati rispetto ai rapporti di potere o a quelli politici. Ma questo è un limite grosso e sto cercando di superarlo”. “Il trucco è capire le dinamiche che stanno dietro i comportamenti lavorativi, che sono ancora molto maschili. Bisogna essere più realiste del re: agiremo in un contesto costruito da uomini, che sono diversi da noi. E’ ovvio che hanno costruito tutto a loro immagine e somiglianza. Hanno avuto secoli per organizzarsi. Ma se vogliamo giocare dobbiamo conoscere bene le regole e soprattutto quelle non scritte”. “Avevo un capo con grande esperienza e osservandolo ho capito come gestiva le persone e le situazioni. Strategia, difesa ed attacco. Ho imparato a essere più politica”.

Dietro a questa difficoltà di vedere e gestire adeguatamente le relazioni e le dinamiche di potere in gioco, viene in evidenza un elemento cruciale, che ci riporta al problema delle lobby. E' il problema dell'appartenenza. O meglio, per le donne, della loro esclusione dai gruppi e dai luoghi dove questi giochi vengono agiti, della non appartenenza al gruppo dominante, che storicamente è maschile.

“Ai vertici sono ancora uomini che privilegiano gli uomini”.
Le donne restano di fatto escluse anche dai circuiti informali maschili. Per l'inesperienza nel curare questo tipo di relazioni, o per la loro obiettiva impossibilità di occupare per questo scopo altro tempo di non-lavoro (come bighellonare al bar per uno spensierato aperitivo mentre i bambini a casa aspettano la cena?). O perché questi circuiti si strutturano attorno a rituali tipicamente maschili (come partecipare ad una partita di calcio Marketing contro Venditori e relative goliardate di spogliatoio?) .

“Per certo so di non aver potuto curare quell’attività di relazione, di legami 'da sottobosco' che i giovani rampanti curano con attenzione maniacale. Alla fine della giornata io avevo i miei ragazzini, e non potevo destinare altre risorse al lavoro. Ho capito dopo che la presenza in situazioni informali, collaterali, con gli attori significativi che compongono la rete professionale è di particolare importanza. Queste frequentazioni 'altre' fanno parte di uno stile manageriale che accresce la sua influenza attraverso situazioni e luoghi fuori dagli ambienti ortodossi del lavoro.” “Quando un personaggio importante per l’organizzazione è venuto a far visita al nostro stabilimento, ho partecipato alla riunione e mi sono detta disponibile anche per la cena dopo il lavoro. A questo proposito qualcuno mi aveva chiesto se non preferivo andare a casa da mio marito. Sapendo che quella sera si sarebbero giocate partite informali importanti, ho detto che non c’era nessun problema. Però il meccanismo di esclusione era già scattato. Ho dovuto neutralizzarlo.”

Essendo fuori da circuiti di potere o di appartenenza, è più difficile per le donne avere adeguati strumenti per definire strategie di sviluppo o di difesa: avere segnali tempestivi, informazioni su cosa sta succedendo e perché, quali sono i giochi in atto. E poter cercare appoggi e sostegno.
Ciò che rende più difficile migliorare o difendere la propria collocazione sono proprio i meccanismi non trasparenti con cui vengono prese le decisioni e le loro motivazioni. Perché tutto avviene in luoghi e gruppi in cui le donne non ci sono, a cui non appartengono, in cui non possono esercitare alcuna influenza. Solo quando il meccanismo e le ragioni sono chiare ed esplicite è anche possibile agire e reagire in modo adeguato.
Da questo deriva tutta la difficoltà di smascherare come avvengono le scelte discriminatorie. L'appartenenza è probabilmente il principale aspetto intangibile che fa funzionare il 'soffitto di vetro'. Ed è probabilmente un aspetto cruciale nell'esercizio del potere.

“Mi sentivo all’apice del successo professionale. Come un fulmine a ciel sereno, il mio capo mi comunica che, a seguito di una ristrutturazione, la mia posizione organizzativa veniva cancellata. Per sei lunghissimi mesi non è stato possibile parlare con lui né con nessun altro. Non sono mai riuscita a sapere davvero cosa fosse capitato”. “Ho subito un’azione fatta di esautorazioni, accordi presi su altri tavoli di cui tutti sono a conoscenza all’infuori di te. Ho delle responsabilità, soprattutto per non aver fatto un’analisi realistica delle condizioni in cui mi muovevo, per non aver preso le misure dei giochi di potere, l’ignoranza di alcune dinamiche. Non possiamo permettercelo”

C'è dunque consapevolezza che non si tratta solo di sentirsi soggettivamente più o meno desiderose o capaci di attivare relazioni con le persone di potere. Ma che bisogna comunque acquisire la capacità di fare i conti con le strutture e i rapporti di potere, e di acquisire potere proprio.
Ma con quali strumenti? In realtà non ci sono pareri convergenti, non c'è nemmeno una tendenza dominante.
Quello che sembra interessante, per tornare al tema delle lobby, è che queste non sono molto citate tra gli strumenti auspicati. Certo, vengono considerate e da alcune ritenute positive, così come altri strumenti che possono cambiare i rapporti di forza: soprattutto, e con più rilievo, le 'quote rosa'.

“Le donne non sanno fare lobby e non votano le donne : è un problema di autostima che porta ad avere poca fiducia nel tuo stesso genere e ad affidarti al 'maschile' nelle decisioni di come deve svilupparsi ed essere gestita una società”. “Fino a poco tempo fa pensavo che le 'quote rosa' fossero uno strumento umiliante, che potevamo farcela con la nostra competenza, la nostra grinta. Oggi non lo credo più. Bisogna fare pressione in tutti i modi possibili perché venga garantito l’accesso delle donne alle posizioni di vertice. Non c’è altro modo per garantirsi la massa critica necessaria per cambiare veramente le regole”.

In questo atteggiamento c'è certamente in parte una scarsa familiarità con gli strumenti per organizzarsi rispetto al potere. Ma c'è probabilmente un altro segnale: che le donne non si trovano a proprio agio in organizzazioni che funzionano con la stessa logica del potere maschile, una riproduzione per donne di strutture nate dagli uomini e per gli uomini. Basti pensare al prototipo storico delle lobby professionali, la massoneria, un mondo di 'fratelli' dove le donne non sono ammesse.
E credo che conti anche un altro fattore. Le lobby o associazioni grandi e piccole che oggi esistono sono abbastanza lontane e poco influenti sulla concreta vita di lavoro della grandissima parte delle donne in un iter di carriera. Se sono grandi lobby, possono essere strategicamente utili per la contrattazione a livello politico, per esempio, o come rete di sostegno e promozione reciproca, ma nell'ambito di ristretti gruppi di appartenenza. Così come avviene con altri gruppi di appartenenza femminile.
Si pensa spesso che nessuno strumento sia inutile, ma c'è una certa freddezza rispetto a queste forme organizzative. Perché, pensando al loro qui ed ora, alla loro condizione individuale specifica, le donne sentono il bisogno di altri approcci, più utili per sé subito, più vicini ai propri problemi immediati, più consoni al loro modo di essere. Tanto che, in molti casi, le donne non pensano a strumenti collettivi, ma a continuare il proprio percorso da sole, dotandosi di sempre maggiori strumenti di competenza e capacità. Ma molto frequentemente lo strumento di cui le donne sentono più il bisogno è la relazione con le altre donne nella stessa situazione. E' questo che dà uno strumento apparentemente semplice ma importantissimo: non essere e non sentisi sole, non sentirsi più l'unica inadeguata e incapace. Perché questo è causa di grande sofferenza, di sfiducia in sé stesse e senso di impotenza.

“Mi è mancato l’aiuto di una donna con esperienza, che sa riconoscere certi segnali molto prima di te, che sei maledettamente ingenua, che non sai dare il giusto peso alle cose”. “ A volte mi sono sentita sola. Non ci sono molte donne nell’organizzazione al mio stesso livello con cui confrontarmi e parlare. Recentemente ho fatto un’esperienza di training con una professionista senior. Che bello poter parlare deigli stessi problemi e difficoltà! Lei capiva al volo tutto, per esserci già passata”. “Sarebbe molto utile un mentoring di un’altra donna, esperta. E' importante avere uno spazio per esaminare da vicino le dinamiche dell’esercizio del potere. Penso soprattutto a strumenti per capire, riconoscere certe situazioni, uscendo dall’ingenuità. Per superare il tremore emotivo che taglia il fiato e recuperare capacità di analisi, e di risposta”.

Potersi confrontare con altre donne, rispecchiarsi nelle vicende di altre, fa prendere consapevolezza che i problemi, invece, sono comuni. E si può apprendere come affrontarli dallo scambio di esperienze, si può prendere forza dal sostegno reciproco. Che non significa vicinanza amichevole, ma costruire relazioni fondate su interessi comuni e azioni comuni, che possono diventare strumento potente di un altro potere.
Qui bisognerebbe aprire dunque un altro capitolo, quello dei rapporti tra donne sul lavoro. Perché il rapporto con il potere aziendale e la costruzione di un proprio potere per la maggioranza delle donne sembra passare da qui, piuttosto che dall'appartenenza ad una lobby tradizionale.
E questa è tutta un'altra storia.

Luisa Pogliana

(Pubbicato su Direzione del personale, n° 3, settembre 2008)

Recensioni: Il come e il cosa


Abbracciare l'orso

di Giovanna Galletti, Gianna Mazzini e Luisa Pogliana
Guerini e Associati, Milano 2008

COSA
Sono andato a visitare il nostro call center del Veneto. Quando sono entrato non potevo credere ai miei occhi. Il direttore aveva fatto sistemare in un angolo un gigantesco orso di peluche. A cosa serve? Gli ho chiesto. Quando le persone non ce la fanno più, possono andare ad abbracciare l’orso, mi ha detto. Ma funziona? E lui: guardi. Ero allibito, ma effettivamente ogni tanto qualcuno si alzava e andava ad abbracciare l’orso.

Siamo partite da un’osservazione semplicissima e cruda: il mondo del lavoro prevede che, chi entra a farne parte, metta via sentimenti e affetti. Prevede che una persona non li porti con sé quando lavora, in nome della razionalità, del rigore impersonale del business. Affettività, sentimenti ed emozioni devono restare fatti privati.
Ma il mondo del lavoro non è affatto come lo raccontano, cioè un’applicazione rigorosa di tecniche e decisioni prese con freddezza. In realtà non c’è nulla come il business per scatenare passioni forti. L’affettività, le emozioni sono sempre al lavoro. E’ impossibile senza.
Perché siamo, tutti e tutte, persone intere.
Dunque gli affetti, cacciati dalla porta, rientrano dalle finestre e cercano di farsi spazio come possono. Spesso in maniera confusa e disordinata. Magari ci si innamora del capo, del collega, della collega. Oppure non si riesce a dimenticare quello che è successo a casa, con la moglie, il marito, i figli. I compagni.
Anche se non si vedono, esistono milioni di fili fra noi.
Invisibili come le onde radio, come le traiettorie degli uccelli o le strade dei pesci. Noi viviamo tutti immersi in una rete invisibile di relazioni con le persone con le quali lavoriamo o alle quali il nostro lavoro si rivolge.
Le relazioni sono uno strumento potente.
Perché muovono energie che ci sono, ma dormono, risvegliano capacità latenti.
Perché possono trasformare gli ambienti senza distruggerli. Possono modificare, inesorabilmente, ogni struttura, ogni rigidezza, ogni gabbia.
Le relazioni hanno confini più larghi di quanto possiamo immaginare. Troppo spesso riduciamo i sentimenti ad una gamma piccina, chiusa, finita, che vede nell’amore e nell’amicizia, comunemente intese, l’unica possibilità di esistere. Ma ci sono relazioni che non possiamo inquadrare, che non rientrano nelle caselle. Tante testimonianze, raccolte nel libro, ce l’hanno raccontato.
Il lavoro, anche quello brutto e avvilente, contiene una possibilità: noi l’abbiamo chiamato ‘eros del progetto’. Lavorare allora può provocare l’amore, non solo nel senso, noto, di favorire flirt e relazioni amorose, ma anche e soprattutto nel senso di muovere energia e sviluppare passione.
Il lavoro può accendere, cioè, parti che normalmente si accendono con l’amore.
Il libro parla di questo. Mette l’accento sul ‘progetto di vita’.
Forse non c’è l’abitudine a pensare a sé con un progetto di vita che non sia quello comunemente inteso: la carriera, il guadagno, la famiglia. E’ normale che alla domanda: qual è il tuo progetto? Si risponda: vorrei diventare questo o fare quest’altro, o avere una famiglia… Ma il progetto di vita come lo abbiamo inteso noi, non ha a che fare con i temi, (carriera, famiglia, denaro) ma con un modo. Perché ogni persona, anche se non ne è consapevole, anche se lavora come casalinga o in un contesto non organizzato, sta continuamente lavorando all’opera di sé, alla costruzione della propria identità. Questo può essere davvero un lavoro appassionante.
Il progetto di vita è quella particolare caratteristica del nostro essere che, quando vive, produce energia, piacere. Non è un solo mestiere, anche se spesso la si scopre facendo un mestiere. Non è tanto il ruolo ricoperto, anche se anche lì può essere messa in gioco. E’ piuttosto quella nostra specificità, quell’insieme di caratteristiche, che, quando abbiamo la capacità di mostrarle, produce un brividino, produce un piacere senza nome.
Perché, per ognuno, ha un nome diverso. Scovarlo è indispensabile per riuscire a provare piacere qualunque lavoro si faccia e persino quando il lavoro non ci piace.


COME
Quando l’editore ci ha proposto di scrivere questo libro, abbiamo accettato subito anche se il motivo si è chiarito strada facendo: il tema ci toccava più di quanto ci rendessimo conto.
Abbiamo scritto scegliendo una scrittura pensata e realizzata insieme.
Lavorare in tre non è stato facile. Sempre più spesso, in questo tempo di conflitti, ci si sceglie per somiglianze. Troppo più facile e incoraggiante dire “anche per me funziona così”, “è proprio vero quello che dici”. Molto più faticoso provare ad assumere, anche per un attimo, il punto di vista di qualcuno che non ti somiglia e che per età o per esperienza si è fatto un idea del mondo diversa dalla tua. E noi siamo tre donne con storie, esperienze e formazioni diverse.
Luisa, che conosce i meccanismi delle organizzazioni d’impresa per essere stata dirigente di una grande azienda per molti anni; Giovanna, economista che ha volutamente evitato l’inserimento nelle logiche aziendali scegliendo prima la libera professione e poi l’impresa in prima persona; io, regista, che cerco di guardare la realtà spostando continuamente il punto di vista.
Nella prima fase è stato forte lo sforzo di adattamento: abbiamo attraversato i conflitti, abbiamo gestito le rigidità di pensiero, quando rischiavano di diventare muri.
Abbiamo progettato le tappe del percorso, abbiamo fatto programmi. Ma il tempo realmente produttivo è stato quasi sempre il tempo dell’istante proficuo: certe cose, spesso le migliori, accadono solo in certi momenti, e accadono solo se le lasciamo accadere.
Riconoscere, per ciascuna, le capacità delle altre non è stato esercizio sempre facile.
Ma sapevamo che imporre una misura rigida al contributo di ognuna ci avrebbe allontanato dallo scopo. Per questo abbiamo lasciato che le specificità emergessero, e su quelle ci siamo basate.
Abbiamo proceduto per approssimazione e aggiustamento, senza ansia di perfezione.
Abbiamo accettato l’imperfezione. La perfezione è un modello astratto al quale adeguarsi. La perfezione non può essere amata. Quello che facciamo sì.

Gianna Mazzini

(Pubblicato su Persone&Conoscenze, 2008)

Articoli: Diversità, ingiustizia, regole


Della diversità si parla molto, moltissimo di questi tempi. Soprattutto delle diversità di genere. I convegni e i libri si moltiplicano, gli esperti e i consulenti hanno molto lavoro: la diversità è l'ultimo cavallo di battaglia del politicamente corretto e l'ultima qualificazione distintiva dei guru aziendali. Perché allora i cambiamenti di cultura e prassi aziendale su questo terreno sono così irrilevanti?

E' una vita che ci rompete i coglioni
Qualche giorno fa ho incontrato ai margini di un convegno un ex collega, in passato membro del board dell'azienda dove entrambi abbiamo lavorato. Ci scambiamo qualche informazione su cosa stiamo facendo ora, e io cito una persona con cui ho un ottimo rapporto professionale. 'E' bravissima -gli dico- la migliore che abbia incontrato in questo lavoro. Se non fosse una donna avrebbe fatto ben altra carriera in quell'azienda'.
Ed è vero. C'è almeno un'occasione ben nota a chi lavorava in quell'ambiente allora, in cui le è stato preferito un uomo che professionalmente e intellettualmente non le arrivava nemmeno alle ginocchia. Ma la cultura aziendale trasmessa ad alta voce in una riunione dal direttore generale dell'epoca non lasciava dubbi: 'Mai scegliere una donna anche se è al massimo delle capacità. Ricordatevi che prima o poi una donna piange'.
Il mio ex collega a questo punto sbotta, con tono scherzoso ma in realtà con convinzione: 'Ancora con queste storie, non se ne può più, è una vita che ci rompete i coglioni' .
Ma il punto non è questo. Il punto è che io, orribile a dirsi, mi sento annaspare, mi sento un pesce che apre la bocca e ne escono bolle d'aria. Cerco di dimostrare quanto sia vera la mia affermazione nel caso specifico, mi manca solo di gridare che ho le prove, ma mi sento le armi spuntate.
Perché il problema, da quando le donne hanno messo piede in azienda e ancora oggi, è che i trattamenti discriminatori che le riguardano non sono certo ufficialmente annunciati, non sono nemmeno motivati, nessuno si preoccupa di giustificarli, non avvengono con meccanismi trasparenti, non hanno ragioni di vantaggio aziendale che li spieghi.
Al contrario, avvengono nella totale arbitrarietà, spesso contro ogni razionalità, con dinamiche opache. E quando una cosa non esiste ufficialmente, non si sa come avviene, dove, perché, per decisione di chi, semplicemente non esiste. Non è vera, non è dimostrabile, non è denunciabile, non si può provare, non si sa come contrastarla.
Eccolo qua il famigerato 'soffitto di vetro', così battezzato oltre vent'anni fa per indicare quella cosa efficacissima nel bloccare l'ascesa delle donne alle cosiddette posizioni apicali, ma che apparentemente non esiste, perché non si vede.
Comunque, in quel momento, di fronte all'ex collega che stroncava con aria pragmatica il 'solito rivendicazionismo femminista', di fronte a me che mi trovavo a mani vuote sapendo invece di avere ragione a piene mani, mi è montata una rabbia, che non è vero che acceca, la rabbia illumina. E mi sono detta, e ho detto: Il problema è che i coglioni su queste cose non ve li abbiamo mai rotti seriamente, mai quanto sarebbe stato giusto e necessario.
Mi sono vista passare rapidamente in testa tutta una serie di lavori, discussioni, convegni, articoli scritti, documenti preparati per usarli dentro e fuori l'azienda dove ho lavorato. Tutti che trattavano i fondamentali aspetti per cui non si può continuare a tenere le donne in buona parte fuori dall'attività lavorativa e fuori dai posti e luoghi di responsabilità. Nell'interesse certo delle donne, ma anche delle aziende, dell'andamento economico, del paese. E sono tutte argomentazioni vere.
E' vero che un paese dove l'occupazione femminile è ai livelli più bassi d'Europa è un paese che lascia fuori dalla costruzione dello sviluppo economico la stragrande maggioranza della sua popolazione. Infatti si vede in quale situazione economica è andato a cacciarsi. Con danno di tutti.
E' vero che c'è uno spreco vergognoso di risorse. Le donne arrivano al mercato del lavoro con preparazione e qualificazione molto più elevate degli uomini, ma vengono falcidiate, nella loro crescita a favore di uomini meno preparati. Si buttano talenti preferendo affidare il proprio sviluppo alla mediocrità.
E' vero che le donne sono intralciate nel loro cammino al lavoro da carichi famigliari antichi come il mondo ma in un mondo dove le cose non possono essere più così. Eppure si considera naturale che le donne abbiano un monte ore aggiuntivo di lavoro gratuito per gestire la famiglia, qualunque sia il loro lavoro e il livello professionale raggiunto, o si ritiene che le donne debbano limitare o rinunciare ad una carriera per occuparsi della vita famigliare. Invece di fornire un'adeguata organizzazione aziendale e strutture sociali perché non debbano dimezzarsi la vita o raddoppiare la fatica.
Quanto alla diversità, ci si riempie ormai così tanto la bocca di questa parola che ne facciamo un altro feticcio del politicamente corretto. Ma la cultura e le prassi informali delle aziende continuano in modo non sensibilmente dissimile.
In prevalenza, almeno da noi, quando si parla di diversità la differenza a cui si fa riferimento è quella di genere. Il tema, cominciato in sordina diversi anni fa, è oggi molto di moda.
E' arrivato come al solito dall'America, dove il nome inglese di diversity management conferiva subito la dignità e l'accettabilità di un nuovo aspetto delle dottrine organizzative e manageriali.
Molte parole si sono spese sugli stili di leadership femminile, così diversi e così più adatti alle esigenze dell'azienda oggi. Sembrava che le aziende non dovessero fare altro che accoglierli per trarne vantaggi. Ma non abbiamo avuto, in realtà, molte occasioni in più di vedere all'opera la leadership femminile.
Le teorie aziendali sono spesso agili nel recepire molte cose, anche perché queste teorie si vendono sul mercato, e se c'è una novità si vende meglio. Molto dunque si è parlato della ricchezza che viene dalla diversità delle donne, portatrici di visione nuova, di intelligenza emotiva, di un modo di vedere e sentire la realtà con uno sguardo diverso, e che quindi portano un incremento di conoscenza e capacità aggiuntive negli approcci al lavoro e alla managerialità.
In più, in Italia, da vent'anni il pensiero della differenza sessuale è entrato a far parte di una cultura femminile piuttosto diffusa in un certo tipo di donne, e non è rimasto certo estraneo alle riflessioni sul lavoro delle donne.
Ciononostante, la cultura aziendale , nella maggioranza dei casi, di fatto sembra continuare ad avere un solo tetragono modello di riferimento, e a funzionare con quello.

Ragionevolezza e insofferenza
A questo punto ho avuto una reazione di insofferenza.
Basta, basta fare le persone ragionevoli e giudiziose, le persone intelligenti e convincenti, che vedono gli interessi delle donne sotto la luce degli interessi aziendali prima ancora che sia l'azienda a vederli, gli interessi del paese di cui al paese sembra non importare nulla. Torniamo a dire, prima di tutti questi discorsi responsabili sul vantaggio comune, torniamo a dire che per noi è una questione di giustizia. Diciamo che nel porre questi problemi noi pretendiamo innanzitutto che venga riconosciuto, in generale e a ogni individuo, il valore del proprio diverso modo di essere, e riconosciuto nei termini di praticare e premiare e remunerare un diverso approccio al lavoro un diverso modo di essere al mondo. Noi pretendiamo un trattamento di equità .
E sento il bisogno di tornare a dire chiaramente che, prima di tutto, ciò che mi ha portata a scrivere e a fare tutto il resto, a comportarmi in modo che in azienda qualcosa cambiasse è stata una cosa più più concreta e più potente di qualunque teoria economica: io ho spesso sentito che mi veniva tolta la mia libertà di essere quello che sono e di fare quello che desidero e posso. Mentre questa possibilità per altri era normale diritto acquisito. E io questa cosa non la voglio per me, non la voglio più per nessuna.
Intendiamoci, è tutto vero. E tutto serve. Io credo che non ci sia una sola azione superflua da tentare, una sola pratica da cui prendere le distanze quando si tratta di provare a cambiare la evidente iniquità che segna la presenza femminile sul mercato del lavoro.
Anche perché le aziende cambiano le loro politiche e le loro cultura solo se capiscono che ne hanno un vantaggio.
Queste sono tutte argomentazioni vere e importanti. Più che sufficienti se qualcuno volesse capire.
Cosa manca allora?
Qualche episodio aiuta a vedere meglio la questione.
Per i primi numeri proprio di questa rivista avevo preparato alcuni contributi che affrontavano il problema del trattamento penalizzante per le donne nel mercato del lavoro, e anche sulla diversità come ricchezza (che in quel momento non era ancora diventato un tema 'in').
L'ottica era esattamente questa: l'interesse generale e l'economicità complessiva.
Un amico, dopo averli letti, mi disse: 'ah, l'hai messa giù così per fargli passare le cose in modo più digeribile'. Era, per lui, un'astuzia.
Anche quel momento per me fu illuminante. Pensai che certo appare molto più serio, maturo, ragionevole, costruttivo e accettabile dire: ehi, guardate che non stiamo rivendicando, non stiamo recriminando, stiamo parlando anche nel vostro interesse, vedete come ci facciamo carico dei destini sociali?
Avevo detto cose che ritenevo giuste e razionali. Sentivo però che mi ero tenuta a freno.
Allo stesso modo, nell'ultimo convegno sulla diversità a cui mi sono trovata a partecipare, stavo ascoltando l'intervento di un relatore che non sembrava essersi mai sentito diverso in nessuna situazione, ma piuttosto pietra di paragone. Mi è venuto di nuovo un moto di insofferenza.
Ormai siamo tutti intelligenti, ed evoluti, e buoni, mi sono detta. Sappiamo tutto sulla differenza di genere -e d'altro- e sul suo valore, sappiamo che va accolta e va valorizzata. E così in realtà, confinata ai discorsi, paghiamo il tributo formale e poi via come prima.
(Come quando anni fa partecipai ad un seminario aziendale obbligatorio sul 'pensiero laterale' -la moda del momento di allora-. Per un giorno il gruppo dovette allenarsi a pensare diversamente, a trovare una propria originalità, un'insolita visione. Il giorno dopo eravamo in riunione, tutti allineati e coperti ad aspettare il verbo del capo, così giusto che nessuno osava non essere d'accordo. Anche perché se qualcuno dissentiva veniva stroncato. Il corso sul pensiero diverso non poteva cambiar niente, né ci si aspettava che lo facesse: era stato proposto e gestito nell'ambito rigoroso della cultura aziendale omologata e indiscutibile, e lì doveva restare).
E' così che si depotenzia la carica di cambiamento che la differenza contiene in sé, che viene dal suo profondo concetto di equità: tutti gli individui hanno un valore, il loro valore, non ci sono categorie che per definizione valgono più delle altre e costituiscono il modello.
Ma questo lo capisce, lo sente e vuole che gli venga riconosciuto solo chi è differente dal modello, e come tale viene definito e trattato. Definito in genere negativamente e trattato quindi peggio degli altri. Ingiustamente.

Diversità e regole
Parlare della diversità senza darle il corpo, la concretezza e le realtà di una vita vera è come se si volesse farsi accettare togliendo la potenzialità di rottura di un sistema dato che la diversità contiene.
Per questo ho sentito la voglia di dire chiaramente come a me interessa parlare di diversità. Ovvero di cosa vuol dire essere donna e lavorare in un'azienda, essere donna e fare o cercare di fare una carriera in azienda, quando si sceglie o ci si trova a farlo.
Per una volta diciamolo chiaramente, non per è il bene dell'azienda, che così si arricchisce e diventa più competitiva. Prima di tutto è per il bene mio, per il bene delle donne.
La cosa che sento più importante è il fatto che, prima di essere teorie e analisi sociali e riflessioni economiche, per le donne il problema delle carriere femminili in azienda e della loro diversità è realtà quotidiana, personale e concreta. Con tutte le sue soddisfazioni, ovviamente, ma certo con i suoi a volte cari e soprattutto non motivati prezzi.
Nella mia storia, normale storia di una che ha passato la vita lavorando in azienda, diventando dirigente, ho vissuto e visto vivere tutte quelle assurde disparità di trattamento di cui si parla in innumerevoli studi: gli ostacoli aggiuntivi, gli stereotipi, i soffitti di vetro e i ghetti di velluto, le retribuzioni, i riconoscimenti e le opportunità iniquamente dispari, la cultura aziendale che penalizza le donne.
La cosa decisiva, mi pare, è parlare partendo da sé, assumere e dire la propria storia perché è così che si prende consapevolezza della realtà della differenza in azienda. E' decisivo il fatto di avere sperimentato, vissuto personalmente cosa vuol dire essere una donna in un'azienda. Sapere cos'è la nostra diversità agli occhi di questa azienda, che per storia e realtà consolidata è una costruzione sociale maschile.
Ecco qua una brevissima, rapidissima, superficiale raccolta di esempi sulla diversità delle donne vista con gli occhi dell'azienda media. Ovvero degli uomini che in strabordante misura ne sono a capo e ne decidono le politiche.
Le donne sono deboli, comunque, di fronte al codice della durezza che è il primo codice etico e comportamentale di un'azienda.
Le donne possono anche essere manager, ma restano prima di tutto donne. Le donne sono emotive, e le emozioni contrastano con il codice della razionalità, l 'unico ammesso ufficialmente . A meno che non sia un capo importante a 'sentire di pancia' che è giusto fare in un certo modo, allora non servono motivazioni logiche e stringenti.
Quindi le donne piangono. Come ho già mostrato prima, le lacrime non possono esistere nel tempio dei duri. Poco importa se poi gli uomini, non potendo dare sfogo altrimenti alle emozioni, si incazzano fortemente, a proposito e a sproposito, facendo danni anche seri a cose (il business) e persone. Ma questa non è emotività, è una prova di carattere.
Le donne sono vulnerabili agli affetti e attente alle persone. Che con i dipendenti e i colleghi non si deve e non si può. Si ottiene di più (se non altro per il proprio senso di potenza) con la paura e l'arbitrio.
Le donne prima o poi, oltre a piangere, fanno bambini, e non è questione di ridimensionare un po' il lavoro per un periodo transitorio: l'azienda richiede dedizione totale e assoluta e sempre. Che sia davvero necessario o no.
Le donne, insomma, non hanno i coglioni. Li rompono solo a chi ne è portatore ufficiale, i capi, con la pretesa di ambire a posti da uomini (e così torniamo all'inizio di questi pensieri).
Non si tratta di piccole caricature per ridere. E' purtroppo realtà, non quella realtà aziendale aperta, consapevole, intelligente, moderna che si mostra nei convegni e nelle riunioni ufficiali, ma quella che vediamo in atto nei nostri uffici.
E qui non è questione di vittimismo. Tutto questo è reale e ci costa fatiche supplementari, ma non ci ha mai impedito di andare avanti nel nostro percorso, anzi, ci piace se ci porta dove noi vogliamo, o anche se ce lo impedisce ma intanto noi proviamo, e cresciamo.
Bisogna piuttosto capire da cosa nasce tutto questo, e perché la differenza delle donne, di fatto, è ancora così tanto segnata come mancanza e inadeguatezza, perché si ha così bisogno, quando non è possibile ignorarla, di arginarla e tenerla sotto controllo.
Perché la diversità è dirompente, la diversità scardina un modo di regole date. Soprattutto in azienda.
Il mondo del lavoro, storicamente, è stato costruito dagli uomini, che ne hanno definito le regole secondo il loro modo di essere e i loro bisogni. Ma oggi, con la presenza normale delle donne nel lavoro, anche nei livelli direttivi, queste regole appaiono chiaramente non neutre e non universalmente valide, come invece si continua a presentarle.
Le donne portano anche nel lavoro la loro differenza: fatta di affetti ed emozioni, diverse capacità e diverso modo di pensare e sentire, diverso modo di concepire il mondo e il lavoro, le relazioni e le persone, diverso modo di vivere la vita, che per loro è sempre intera, quella dentro e quella fuori dall'azienda non scisse a compartimenti stagni come facilmente avviene per gli uomini, socialmente sempre centrati fondamentalmente sul lavoro. Ma non è qui il momento di approfondire la differenza femminile in tutta la sua novità e ricchezza.
Qui serve capire che la diversità femminile porta a sovvertire i codici, l'organizzazione del lavoro, le regole, i tempi e le modalità di relazione.
Facciamo solo un esempio, il più comune e comprensibile. Le donne, in maggioranza, nella loro vita devono costantemente farsi carico di molti compiti, vivere molti ruoli diversi. Cosa che non avviene agli uomini. Per le donne il tempo e l'organizzazione del tempo è la risorsa più preziosa Ma in azienda, lo sappiamo bene, un codice diffuso è quello di lavorare a oltranza, spacciando la quantità per qualità, e denunciando incapacità di organizzare più efficientemente l'attività. Ma l'importante è farsi vedere in ufficio fino a tardi, molto tardi, e poi magari bere qualcosa tra colleghi o con il capo. Una donna, se mai fosse attratta da tali modi di sprecare il tempo, comunque sa che deve occuparsi dei figli, per esempio, e sa che una riunione programmata o spostata alle cinque mette in crisi l'organizzazione famigliare. Ed ecco che l'insensatezza di questo modo di lavorare ha cominciato ad essere messo in discussione (in alcune aziende avanzate già si adottano orari totalmente flessibili secondo le necessità personali). Ma anche qui non andiamo oltre con gli esempi.
Piuttosto, si arriva a capire perché tutti questi corsi e convegni e libri sulla diversità incidono così poco sul cambiamento, sono così poco efficaci nel dare valore, valore riconosciuto nei fatti e non a parole, alla diversità.
Perché i discorsi formali e istituzionali vedono e progettano un 'accoglimento' della diversità in azienda solo negli aspetti e nei modi che possono essere integrati nelle norme e nei codici aziendali senza cambiarli, senza sconvolgerli. Non scardinano le regole ma le confermano ponendo comunque i limiti dentro cui deve stare la diversità.
Per questo nella vita reale di questi discorsi non ce ne facciamo proprio niente. Quello che noi possiamo fare è non accettare che le regole siano comunque più forti, che si debba inevitabilmente adattarsi (soprattutto ora che nel mondo del lavoro non siamo più così poche).
Quello che possiamo fare è portare e fare vivere la nostra differenza, darle noi per prime valore e fare riconoscere questo valore.
Uscire dalle regole, cambiare le regole è l'unico modo di tenere davvero conto della diversità.
Se no, è un modo per tenerla imbrigliata.

Luisa Pogliana

(pubblicato su Persone&Conoscenze n° 38, aprile 2008)

Articoli: Gli abiti di Soon Ching Ling. Ai margini di un viaggio di lavoro


Il viaggio di lavoro, in apparenza, potrebbe apparire un non viaggio: si arriva nel solito aeroporto, più o meno uguale ad ogni altro, taxi, hotel, ristoranti di lusso standardizzato, sala riunioni, colloqui in basic english sottocodice manageriale.
Eppure, se si tengono gli occhi aperti, il viaggio di lavoro mostra più di qualunque viaggio turistico, più o meno organizzato. Si entra nei luoghi dove davvero si lavora, si entra in contatto con persone interessate a raggiungere uno scopo, e non solo a blandire o a ingannare l'ignaro turista.
Restano in ogni caso valide le buone regole che ogni viaggiatore dovrebbe rispettare: curiosità; disponibilità a stupirsi; attenzione ai segnali deboli, ai dettagli; consapevolezza della propria ignoranza; capacità di accettare la diversità, senza per questo rinunciare alla propria identità.
La metropoli che forse è nel nostro futuro
Arrivo a Shanghai all'alba, e sulla lunga via dall'aeroporto mentre emerge la città non riconosco nulla, mi chiedo davvero dove sono. Sembra di entrare in un romanzo di Phlip Dick. Sterminata pianura di grattacieli, sopraelevate che si intrecciano una sull'altra, sulle quali mi aspetto di vedere un robot-taxi su cuscinetto d'aria. Nelle strade più strette i grattacieli sono così fitti che si fatica a vedere il sole da terra. Torri che si moltiplicano innumerevoli (nice places for middle class, apprenderò più tardi). Ogni appartamento una vita, ogni ufficio un lavoro, e come ognuno di noi, ognuno si crede il centro del mondo, e ciò che ci riguarda individualmente ha per noi importanza vitale. Ma guardando tutto insieme tutto sembra insignificante. Dove può essere la rilevanza individuale? E così continuo a pensare quando cominciano le riunioni con i miei interlocutori cinesi, con le loro guerricciole di potere che ho visto mille volte a casa nostra, ma su questo sfondo sembrano ancora più ridicole.
Questa città sembra uno specchio ingrandente, un'iperbole, un'estremizzazione del nostro mondo e della nostra vita. Più tardi, gli stessi pensieri camminando per la via centrale, i grattacieli uno più roboante dell'altro, paradiso degli architetti (ma non degli urbanisti) che possono fare ciò che vogliono, purché ogni edificio sia più arrogante, aggressivo, urlante, decorato dell'altro. I negozi del lusso (di più: i grattacieli pieni di negozi del lusso), sfrenata esibizione di oggetti che hanno i prezzi nostrani rispetto a un costo della vita enormemente inferiore, borsette e scarpette equivalenti a uno stipendio annuo, esposte come se fossero lo scopo della vita. Come da noi in Montenapo, dove i negozi ti dicono “se non puoi comperare qua sei una nullità” e le commesse che magari abitano a Quarto Oggiaro ti guardano sprezzanti come vestali del tempio. Uguale, ma tutto moltiplicato. Un mostruoso convegno di tutti i calzolai, sarti, gioiellieri d'Italia, Francia, Spagna, USA e Giappone. Di più non si potrebbe. Non mi sento nemmeno all'estero, men che meno in un luogo 'esotico'.
E questa orgia del consumo di lusso a un'altra faccia che ne conferma l'importanza: il mercato dei falsi. Me ne parlano prima della partenza. In areo Air China proietta un filmino diffidandoci dal comperare fakes illegali, tanto ci beccano poi in dogana. Chiedo in albergo, aspettandomi qualche bancarella precaria nei bassifondi. Mi danno tranquillamente l'indirizzo: Nanjing road n°..., la via dei negozi di lusso. Una torre di più di dieci piani. Ogni piano quattro file di negozietti, ognuno poco più di un piccolo locale che espone prodotti pessimi. Ma subito arrivano venditori 'clandestini' urlanti Gucciprada e Rolex. E sul fondo del negozietto si apre un'anta dello scaffale e, dietro, un bugigattolo pieno di falsi. Lo scopo più probabile è trattenere l'acquirente finché trova qualcosa da comperare. E se non trova, si prende l'ascensore, si scende nei sotterranei, si apre con la chiave il bagno dei disabili (smantellato) ed ecco il magazzino: falsi di prima qualità, di seconda o di terza. Prezzi da trattare a sangue, comunque alti per i locali. Alla faccia dell'illegalità perseguita. D'altra parte si sa che certi grandi marchi sono soci in questo mercato.
Eppure questo specchio deformante mi porta a una sensazione di libertà. E' così ingigantita l'insensatezza di tutto, la percezione di insignificanza, che non ci si sente più parte del gioco. Senso di libertà: perché, per chi, per cosa, sbattersi così tanto continuamente, avere così tante ansie? Per affermare la nostra individualità, invece di cercare di essere felici? 17 milioni di individualità solo in questa città. Senso di libertà dalla nevrosi.
Globalizzazione e diversità
Il giorno dopo la riunione si svolge con le stesse identiche modalità nostre, solo un po' più di sorrisi data l'eccezionalità dell'incontro. Le mie colleghe cinesi esaminano accuratamente i miei vestiti, e dopo la riunione si informano sulla mia borsa e sui prodotti di skin care che uso (per una donna cinese la cura della pelle è quattro volte più importante che da noi, in termini misurati dal mercato dei cosmetici: vengono subito in mente i romanzi cinesi, dove la descrizione della bellezza di una donna riguarda innanzitutto la pelle del suo viso). Come essere a casa.
Anche nei giorni successivi, durante gli incontri per le mie analisi sul mercato locale, ho la conferma che le donne di un certo ceto, di una certa età, su certi temi di fashion & beauty dicono le stesse cose in tutti i paesi dove ho lavorato, per quanto incredibile possa sembrare: Italia, Spagna, Francia, Grecia, Germania, Russia, Australia, Cina.
I segnali di diversità toccano un altro piano. Succede, per esempio, che cerco di entrare su un sito italiano, www.bloom.it, ed è censurato. Succede di andare in giro e accorgermi che su dieci bambini che incontro otto sono maschi, niente altro mi dà una sensazione più terribile. Ciò che colpisce è l'evidenza di ciò che non c'è: ecco sotto i miei occhi i milioni di donne mancanti, di cui ha tanto parlato Amartya Sen.1
Succede che parlando con un professore di storia che ho occasione di incontrare si parla di Mao, e lui mi spiega che esiste un libretto rosso che tutti leggevano, io gli dico che l'ho letto e gli chiedo dettagli su Chen Po Ta e la compagna Chiang Ching, la potente ultima moglie di Mao e capo della 'banda dei quattro', oggi cancellata dalla storia ufficiale, la cui biografia autorizzata non ho mai potuto discutere con nessuno, perché non ho trovato un altro lettore. Mi guarda sbalordito, discute il fatto con il suo vicino cinese. Passi per Lin Piao, ma come faccio a conoscere questi? Evidentemente quando da noi c'era il 68 con le sue code maoiste lui non ne sapeva niente, ed evidentemente ne sa poco anche ora. E come potrebbe sapere, se non può accedere liberamente a Internet e ha solo libri controllati a cui ricorrere? Si stupisce anche del mio lavoro: ma come, le donne italiane non stanno a a casa a curare la famiglia? Nemmeno molte altre persone che incontro sanno cos'è l'Italia, e se viene identificata é per via della moda, per via di Gucciprada. Visti da qui, circa 50 milioni di individui scompaiono nell'insignificanza.
Succede che un paio di riunioni di lavoro nel sud devono essere spostate per via del tifone, ma la riunione finale si farà come programmato: sabato pomeriggio, working hours, mi tranquillizzano, devono recuperare in anticipo la settimana di vacanze nazionali, sono un paese che deve svilupparsi, non possono perdere troppi giorni di lavoro. Ferie pagate: due settimane all'anno.
Così a Pechino ho tempo per girare nella città. Ma qui la sensazione è peggiore. Una città enorme che sembra finta, tutta ripulita, piantumata, ordinata, sorvegliata. Di qua sono passate le olimpiadi. Rifatte le facciate delle poche superstiti vecchie case nel centro (solo le facciate, per i visitatori, non per chi ci abita). Raddoppiate le strade del centro. Spostate le fabbriche. Cosparse le piazze di monumentini di fiori e cespugli tosati con ogni forma. Spazzine che raccolgono incessantemente il minimo pezzetto di carta caduto in strada. Sterilizzate, con divise uguali e berrettini in testa ai venditori, anche le bancarelle di cibo pronto del mercato notturno, con i loro spiedini di scorpioni, vermi, coleotteri, lucertole, cavallucci e stelle marini (il cane, mi informano, è stato abolito dai menù). E piazza Tien An men, la grande, solenne, silenziosa piazza con gli aquiloni che avevo visto ventitre anni fa, è ora divisa in due pezzi da una specie di superstrada di città, i taxi non si possono fermare vicino alla piazza transennata, i pedoni vi accedono solo da sottopassaggi presidiati dalla polizia e dopo aver passato le borse nelle macchine a raggi x. Per trovarsi di fronte enormi monumentini floreali, kitsch e infantilizzanti, alle olimpiadi. Mi viene in mente Gombrowitz: tutti i regimi hanno questo tratto comune, sono infantilizzanti.
Come si vestono non è marginale
Decido di visitare la casa-museo di Soong Ching Ling, che è come una visione della storia della Cina moderna attraverso la vita di una donna. Conosciuta anche come Madame o Doctor Sun Yatsen (dal nome del marito, primo presidente della Repubblica Cinese e fondatore del Kuomintang, e per la sua professione di medico) Soong Ching Ling è una delle più importanti figure politiche cinesi del secolo scorso. Prima militante nel Comitato Centrale del Kuomintang, poi con i comunisti nella guerra civile. Prima donna capo di stato nella cina post-imperiale: nominata vicepresidente della repubblica Popolare Cinese nel '68, e poi, poco prima della morte Presidente Onorario. Nel 1939, fondò il China Welfare Institute Children's Palace, che svolse un immenso lavoro per la salute e l'educazione dei bambini e per la pace. Fondò il mensile China Today. Premio Stalin (poi Lenin) per la pace. Può bastare come promemoria, o per dare un'idea di quanto rilevante sia stata la sua vita e il suo lavoro?
Tutto è documentato nelle vetrinette esposte nella casa, che conserva ancora i suoi mobili. Leggo, guardo le foto, e a un certo punto trovo nella vetrinetta anche un vestito. Bello, tra l'altro: seta bianca ricamata, foggia tradizionale cinese. Il cartellino spiega che si tratta del vestito indossato da Soon Ching-ling nella sua visita a Mosca per l'anniversario di... Continuo, e due vetrine più in là un altro vestito, indossato dalla ormai compagna in un'altra occasione. Bello anche questo, niente a che fare con le mortificanti divise maoiste. E ancora in un'altra vetrina, vestito ricamato per lei dai bambini di... .
La sequenza continua. E alla fine di questo excursus della vita di una donna straordinaria, di foto con le tappe del suo lavoro, del suo ruolo sociale e politico, abbiamo avuto anche un bell'excursus sul suo guardaroba. Sbalorditivo. Dunque anche qui niente di diverso, una donna che compie imprese immani è sempre una donna, prima di tutto, e come i documenti delle sue imprese conta vedere come erano i suoi vestiti.
Non è bastata la rivoluzione Maoista dell'altra metà del cielo, non sono bastati decenni di dittatura che continua formalmente a esibire il faccione del Presidente e la sua ideologia, non bastano miliardi di donne che qui devono lavorare, produrre, fare politica come gli uomini. Come si vestono, non è marginale.
Posso tornare a casa, senza troppe sensazioni di discontinuità.

Luisa Pogliana

(Pubblicato su Persone&Conoscenze, n° 44 Novembre-Dicembre 2008)

Articoli: L'utile e il dilettevole dell'eccentricità


"Uno dei rischi principali della nostra epoca è la progressiva scomparsa degli eccentrici, di coloro che non soggiaciono al modo di pensare e di agire più conformisti"
John Stuart -Mill

Se si entra in una riunione, per esempio un consiglio di amministrazione, e si vedono persone tutte uguali, stessa faccia, stessa razza, stesso vestito probabilmente grigio e di gran sartoria (guardare le foto sui giornali che riprendono pezzi grossi dell'economia o della politica all'ingresso di una riunione), è un segnale di probabile omogeneità di pensiero, di uguali limiti nella capacità di comprensione della realtà, dei bisogni sociali, del mercato: la disomogeneità riguarda probabilmente solo le capacità personali e gli interessi di cui ognuno è portatore. Perché persone diverse per sesso, estrazione sociale, provenienza portano l'esperienza di pezzi diversi della realtà, e permettono a un'azienda, un partito, un governo di operare meglio conoscendo di più, sia la situazione che le risposte adeguate. E' il solito discorso della diversità come ricchezza, che rischia di diventare una formula di rito, sottoscritta ufficialmente, ma ignorata nei fatti.
La diversità, non solo di genere, da noi si sta espandendo rapidamente, appena emergerà ciò che oggi è sommerso, anche noi cominceremo, per esempio, a dover fare conti più seri con le minorities. Problema che negli USA è stato affrontato con leggi di tutela antidiscriminatoria rispetto ai diritti del soggetto, ma anche strumento di recupero di tutte le risorse quantitative e qualitativamente diverse presenti nella società. Con un fondo di materialismo, penso che gli ideali nascano ma soprattutto di radichino come idea condivisa quando ci sono necessità concrete.
Possiamo fare qualche esempio di quando le aziende usano, anzi, cercano, la diversità perché ne hanno bisogno. I settori della moda (e dell'editoria, per certi segmenti, soprattutto sul fronte dei giornalisti) hanno una percentuale più alta di donne in posizioni rilevanti: perché più capaci di comprendere quei target, o perché la loro faccia, che si presenta al pubblico e agli investitori, è in questi casi più adeguata e credibile. I settori che devono fare prodotti creativi (l'abbigliamento o le agenzie pubblicitarie, per esempio) non solo accettano ma richiedono che i loro 'creativi' abbiano look trasgressivi, e comunque guai alle cravatte la cui assenza è altrimenti impensabile in riunioni manageriali. Tanto che un bravo creativo, senza segni esteriori di 'diversità', fa probabilmente meglio a conformarsi allo stereotipo dell'anticonformismo se vuole essere assunto (non è una boutade, ho conosciuto casi reali). E nelle teorie di management si parla di problem solving creativo, anzi, si fanno corsi di pensiero creativo, a fronte dei quali, nella prassi quotidiana, non si cerca o si reprime il contributo di chi lavora in posizioni gerarchicamente non elevate, considerato a priori inadeguato, incompetente. Ciò è spesso vero, ovviamente, ma è anche vero che se non si cerca non si trova. Le risorse sommerse e quindi non utilizzate in un'azienda sono sempre troppe. Ho visto un caso recente. Un'azienda che ha voluto promuovere il contributo innovativo di tutto il management fino ai quadri, attuando un piano mirato, ha visto una partecipazione e un coinvolgimento assolutamente inaspettato: qualche idea importante è effettivamente emersa, e in ogni caso la motivazione collettiva è migliorata sentendosi chiamare in causa come soggetti.
Anche senza arrivare alle grandi differenze sociali, pensiamo alla differenza di ognuno di noi. Senza questa differenza non ci sarebbe confronto, stimolo, crescita, sviluppo, varietà di contributi. Che sarebbe certamente maggiore se non fosse ignorata, condizionata, conformata al comportamento dominante a partire dall'educazione dei bambini. Bambini i cui interessi, attitudini, doti, desideri non vengono rispettati e assecondati, curati come "piantine che spuntano in un angolo del giardino e non si sa cosa siano, ma vanno solo annaffiate senza tormentarle, e sperare che un giorno possano avere foglie di poesia". Si cerca invece di conformarli a modelli che i genitori ritengono vincenti. Quanti bambini vediamo educati a competere già all'asilo, che devono sapere un po' di inglese appena dopo gli omogeneizzati, stressati da giornate in cui bisogna fare tutto, non quello che a loro piace o fa bene, ma quello che fa bene alla loro presunta affermazione sociale futura. Così, sotto questa pressione alla prestazione, ho visto bambini chiedere un computer non perché sapessero cosa farne, ma perché erano gli unici della classe a non averlo, sentirsi presi in giro perché il loro animale preferito era l'ippopotamo e non il cagnolino o il cavallo: e se un adulto non li aiuta sostenendo la bellezza di essere diversi da tutti? Di essere unici e di vedere nel mondo cose che nessun altro riesce a vedere? Sterminiamo ogni giorno le diversità, che possono invece essere serbatoi di novità e creatività. E a questo proposito è bene ricordare una cosa a proposito di Darwin (sottolineata dal prof. Roberto Piazza in una recente intervista): tutti enfatizzano nella sua teoria l'aspetto legato alla selezione naturale, alla sopravvivenza della specie in base alle capacità di adattamento. Ma l'aspetto più importante del suo pensiero scientifico è un altro: la diversità in natura esiste perché è indispensabile alla vita, la diversità è ricchezza.
E spesso, essere eccentrici, se si è eccentrici, significa anche essere più felici.

Luisa Pogliana

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Chi è eccentrico? Un’indagine scientifica sull’eccentricità
Il termine eccentrico, apparentemente semplice, in realtà non risponde ad una definizione precisa, non ha nemmeno una connotazione univoca, positiva o –più spesso- negativa. L’eccentrico è prevalentemente associato al non conformismo o alla bizzarria, ma se si cerca un archetipo di eccentrico non lo si trova. In psicologia risulta abitualmente adottato un criterio pratico: la deviazione dagli standard accettati. Ma deviazione fin dove? Negli studi psicologici l’eccentricità costituisce un buco nero. A partire da questo, lo psichiatra inglese David Weeks ha deciso di condurre la prima vera indagine scientifica su questo aspetto.1
(Non a caso la Gran Bretagna è considerata il paese per eccellenza degli eccentrici, e si può anche avanzare un’ipotesi sulle ragioni: potrebbe essere la tolleranza diffusa, data per scontata in questo paese, a fornire il terreno fertile su cui l’eccentricità può fiorire)
Nell’introduzione al libro che contiene i risultati della ricerca, Weeks dice: “Tutti hanno un lato eccentrico, ma in genere profondamente sepolto; se l’eccentricità è positivamente associata con la capacità di far affiorare concezioni straordinariamente innovative in campo artistico e tecnologico, bisogna capire i fattori che possono stimolare o inibire il pensiero laterale, ma anche le condizioni in cui questo può svilupparsi liberamente. L’evoluzione umana ha bisogno dell’eccentricità umana”. Viene così avviata un’indagine su centotrenta soggetti (reclutati con metodi a loro volta eccentrici, per risolvere un problema anomalo), che si ritenevano o erano ritenuti eccentrici (adulti maschi e femmine, appartenenti a diverse fasce d’età, classe sociale, livello d’istruzione). L’indagine si basa su interviste e test clinici utilizzati nella prassi delle diagnosi psichiatriche, per poter “tagliare il nodo gordiano” delle ipotesi di sconfinamento nella follia.
Il lavoro arriva a conclusioni che aprono prospettive di grande portata, non solo dal punto vista della conoscenza psicologica, ma dell’importanza del pensiero diverso, strano, illogico, irrazionale.
Tra le molte riflessioni, Weeks segnala che gli eccentrici hanno un ruolo molto attivo nel costruire la loro personalità e la loro vita, lavorando costantemente per forzarne i limiti, e affermare il diritto di essere quello che vogliono essere. Possono influenzare le altre persone, perché tendono ad essere leader. La loro vita è piena di significato (soprattutto per loro), anche perchè riescono ad attingere con libertà e pienezza alle risorse della loro vivida immaginazione, e non hanno bisogno di accedere agli status symbol correnti o di avere l’approvazione della comunità. Possono difendersi isolandosi, soprattutto in una dimensione intellettuale, ma non vivono di illusioni e non negano nessun aspetto sgradevole della loro vita. Semplicemente si rifiutano di violare i loro ideali personali, e non permettono che gli venga impedita l’espressione di sé. La loro è una condizione di libertà. Per questo l’eccentricità è essenziale nella società, perché permette ad essa di avere al suo interno una varietà adeguata ad adattarsi con successo ai cambiamenti in atto. “Eccentrics are a refreshing reminder of everyone’s intrinsic uniqueness”.
Molti sarebbero gli spunti illuminanti da raccogliere, e non si può che rimandare al libro. Ne basti uno, quasi una sintesi delle prospettive aperte da questa indagine, tra l’altro, rispetto al lavoro e alle aziende. “La domanda importante non è perché la Gran Bretagna ha la più grande riserva al mondo di scienziati apparentemente pazzi, professori distratti, e inventori un po’ tocchi. Dovremmo piuttosto chiederci che cosa ne otteniamo di buono: secondo l’ultima ricerca disponibile, più della metà delle nuove idee adottate dalle aziende manifatturiere nel mondo sono scaturite da questo paese.”
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1 David Joseph Weeks with Kate Ward, Eccentrics, The scientific investigation, Stirling University Press, 1988.

(Pubblicato su Persone&Conoscenze n°13 settembre 2005, con un test per misurare l'eccentricità)

Recensioni: Aziende islamiche?

Bernard Lewis
What went wrong? The clash between Islam and modernity in the Middle East, London, Weidenfeld & Nicolson, 2002.
(Trad. it. Il suicidio dell’Islam. In che cosa ha sbagliato la civiltà medio-orientale, Mondadori, Milano, settembre 2002.

Bernard Lewis, Professor Emeritus alla Princeton University, studioso tra i più importanti del Medio Oriente e della storia dell’Islam, esamina in questo saggio le ragioni della caduta della civiltà islamica nell’impatto con la modernizzazione proveniente dell’occidente.
Per molti secoli la civiltà islamica ha dominato nel mondo raggiungendo livelli di incomparabile levatura sotto tutti gli aspetti. (La Cina godeva di un simile livello di sviluppo, era però lontana e più chiusa). Poteva guardare con disprezzo all’inferiorità dell’Europa medioevale. Ma all’improvviso il rapporto cambiò. L’Europa cominciò ad avanzare enormemente sul piano culturale, fino ad acquisire una supremazia scientifica e tecnologica.

Per molto tempo i mussulmani ignorarono questo processo, nonostante cominciassero anche a subire sconfitte politiche e militari di grande rilevanza. Questi eventi venivano sottovalutati, come episodi non preoccupanti. Le élites islamiche si resero necessariamente conto che l’Occidente aveva sviluppato nuove armi e nuove capacità nelle tecniche di guerra, ma questo non li indusse a chiedersi da dove l’innovazione scaturisse: si limitarono a comperare materiali e competenze militari. Nel diciassettesimo secolo, il commercio europeo si sviluppò fino a controllare tutti i punti di arrivo e partenza degli scambi tra est e ovest. Questo formidabile sviluppo era frutto delle nuove rotte aperte dai navigatori, e dalla scoperta del Nuovo Mondo.
Solo allora la pericolosità del nuovo stato di cose si impose con una certa consapevolezza nel mondo islamico. Il mondo islamico –i Turchi soprattutto– cominciarono a interrogarsi per capire ‘che cosa avevano sbagliato’, e come potevano riparare.
L’attenzione del medio Oriente si concentrò dunque sul capire l’Europa in tutti gli aspetti che ne avevano determinato la supremazia: le armi e la tattica militare, il commercio e l’industria, i governi e la diplomazia, l’istruzione e la cultura, la struttura sociale.

Ed è quest’ultimo aspetto che porta al tema che qui interessa: la concezione del ruolo delle donne, intesa come uno degli aspetti cruciali di differenza tra le due civiltà, uno dei punti di debolezza rispetto all’occidente.
Nelle relazioni dei viaggiatori mussulmani in Europa (soprattutto Turchi) si trovano brani che rendono molto bene l’enorme distanza culturale. Così racconta Evliya Çelebi, scrittore turco che visitò Vienna nel 1665: “In questo paese ho visto uno spettacolo straordinario. Quando l’imperatore incontra una donna per strada, se lui sta cavalcando, ferma il cavallo e la lascia passare. Se l’imperatore è a piedi e incontra una donna, assume un atteggiamento cortese. La donna saluta l’imperatore, che allora si toglie il cappello per mostrare rispetto verso la donna. Dopo che la donna è passata, l’imperatore riprende la sua strada. E’ certamente uno spettacolo straordinario. In questo paese e in generale nelle terre degli infedeli, le donne hanno un’importante voce in capitolo. Sono onorate e rispettate (…)” .
La differente posizione sociale delle donne nei due mondi presentava un contrasto tanto violento da essere citata da quasi tutti i viaggiatori di una parte e dell’altra. I mussulmani che visitavano l’Europa parlavano con sbalordimento dell’immodestia e immoralità delle donne occidentali –senza che gli uomini ne fossero gelosi–, ma soprattutto sottolineavano l’incredibile libertà di cui godevano e l’assurdo rispetto loro tributato.
Nel mondo islamico le donne, insieme con gli schiavi e gli infedeli, costituivano i tre gruppi discriminati. Per quanto riguarda gli infedeli e, in parte, gli schiavi, i paesi europei avevano interesse a cambiare la situazione, soprattutto per quanto riguarda la parità di diritti per i Cristiani nei paesi mussulmani. Esercitarono quindi pressioni in questo senso. Nessuna potenza, invece, vedeva vantaggi tangibili nell’eliminare l’oppressione delle donne. Il processo di emancipazione venne dunque direttamente da donne e uomini dell’Islam.
L’interesse delle donne per la propria emancipazione può spiegarsi da solo, ma cosa spingeva alcuni uomini, figure politiche rilevanti, ad occuparsi di questo problema? I leader erano spinti da una visione pragmatica delle conseguenze negative derivanti dall’esclusione economica e sociale delle donne.
Uno dei primi documenti in cui si portano argomenti a favore dei diritti delle donne è l’articolo pubblicato nel 1867 da Namık Kemal, grande scrittore ottomano, leader dei Giovani Ottomani.
“Le nostre donne sono ritenute inutili per l’umanità, tranne che per lo scopo di avere figli; sono considerate semplicemente oggetti di piacere, come gli strumenti musicali o i gioielli. Ma costituiscono la metà e forse più della metà della nostra specie. Proibire loro di contribuire al sostentamento e al miglioramento delle condizioni di tutti con i loro sforzi, va contro le regole fondamentali della cooperazione sociale, a un livello tale che la nostra nazione ne è colpita come un corpo umano paralizzato su un lato. Eppure le donne non sono inferiori agli uomini per capacità intellettuali e fisiche. ... Il motivo per cui le donne da noi sono così deprivate è la percezione che siano totalmente ignoranti e non sappiano nulla di diritti e doveri, benefici e svantaggi. Da questa condizione delle donne derivano molte conseguenze dannose, e la prima è che porta ad una cattiva educazione dei loro figli”. Queste posizioni portarono a vari miglioramenti nella condizione delle donne, ed emersero interessantissime figure femminili, fino al ruolo decisivo delle donne nella rivoluzione costituzionale in Persia tra il 1906 e il 1911.
L’aspetto che qui interessa riprendere è che l’impulso principale fu costituito proprio da necessità economiche, da un problema di risorse. Come Kemal aveva indicato, la modernizzazione dell’economia portava con sé nuove esigenze, tra le quali la necessità di contare anche sul lavoro femminile. La richiesta di lavoro femminile crebbe enormemente nell’Impero Ottomano durante la prima guerra mondiale. Con la maggior parte della popolazione maschile sotto le armi, le donne erano necessarie per mandare avanti le attività produttive e tutti gli aspetti della vita quotidiana. Conseguentemente si rese necessaria anche la loro istruzione: il numero delle studentesse nelle scuole superiori e all’università crebbe notevolmente).

A questo riguardo, la posizione più avanzata fu certamente quella di Kemal Atatürk, il fondatore della Repubblica Turca. In una serie di discorsi tenuti nei primi anni venti, portò eloquenti argomenti a favore della piena emancipazione delle donne. Il compito più urgente che indicava per la Turchia era raggiungere il livello di sviluppo del mondo moderno. Ma non è possibile raggiungere il mondo moderno se si modernizza solo metà della popolazione. Così i diritti delle donne divennero parte del programma politico del’Atatürk, ponendo la partecipazione sociale delle donne come una questione di risorse, la metà delle risorse sociali.
Un’altra parte del mondo islamico, però, intese la questione in modo diametralmente opposto. La modernizzazione è un male. Avere attuato politiche di modernizzazione è un vero e proprio crimine: di questo fu imputato dai fondamentalisti lo Scià. In particolare, come è noto, questa è stata la posizione dell’Ayatollah Komeini. Nei suoi discorsi prima e dopo la Rivoluzione Islamica del 1979, indicò soprattutto l’emancipazione delle donne –mostrare la faccia e parti del corpo in pubblico, stare a contatto con gli uomini a scuola o al lavoro– come il peggiore tipo di occidentalizzazione e incitamento all’immoralità: un pericolo mortale per il cuore della società islamica, la casa e la famiglia.

Le conseguenze di questo sessismo, purtroppo attuato, sono visibili. Sono sotto i nostri occhi.
Prendiamo il documento “Arab Human Development Report 2000”, redatto da un gruppo di studiosi arabi, pubblicato dall’UNDP (United Nations Development Programme), che porta alle seguenti conclusioni.
La regione è più ricca che sviluppata: non vi è carenza di risorse, il reddito pro capite è più alto che nella maggior parte degli altri paesi in via di sviluppo. La barriera che impedisce di raggiungere il suo reale potenziale è costituita dalla grave mancanza di tre elementi : libertà (per la presenza di poteri centrali autoritari, non tenuti a rispondere del loro operato), istruzione (altissimo livello di analfabetismo e totale inadeguatezza del sistema scolastico) e potere di affermazione delle donne nella società. Ci fermiamo su quest’ultimo punto.
In quasi tutti i paesi arabi le donne non sono trattate né considerate legalmente come cittadini a tutti gli effetti. Ancora oggi metà delle donne arabe non sa né leggere né scrivere –costituiscono i due terzi degli adulti analfabeti–, la loro partecipazione alla vita sociale ed economica è la più bassa del mondo. In tutto questo il rapporto identifica un tremendo spreco: come può una società prosperare se soffoca metà del suo potenziale produttivo? E a questo va aggiunto lo svantaggio dell’educazione che i bambini ricevono da madri analfabete e costrette nell’ignoranza. La situazione economica dei paesi a regime islamico integralista sembra esserne la prova.

Probabilmente nessuno di noi ha dubbi sulla superiorità del nostro sistema anche a questo riguardo. E siamo convinti che il nostro sistema sappia efficacemente utilizzare le risorse. Se guardiamo ai fatti, però, il contributo delle donne ‘ al miglioramento delle condizioni di tutti’ tramite il loro lavoro (non domestico) appare limitato.
In Italia, nonostante una grande crescita del lavoro femminile , la percentuale di donne che lavorano è ancora bassa, circa la metà rispetto al tasso di occupazione maschile. Inoltre le donne che ricoprono ruoli dirigenziali sono poche, e pochissime quelle che arrivano a posizioni di vertice.
Dovremo chiederci perché. Non esistono motivazioni strutturali: le donne costituiscono oggi un’offerta lavorativa di alta qualità. Hanno una preparazione scolastica migliore degli uomini; sono più motivate –lavoro e carriera non sono per loro un obbligo sociale ma una scelta–; sono più determinate, perché per arrivare a posizioni dirigenziali devono superare una selezione più dura (una donna deve sempre dimostrare di essere brava, un uomo a pari condizioni deve eventualmente dimostrare di non esserlo).
Così come accade per l’Islam, ecco dunque un esempio di sistema economico che si autolimita. Un sistema che resta lontano dalle sue potenzialità perché si priva di buona parte delle energie e dei talenti disponibili, spesso i migliori, solo a causa di retaggi culturali.
Forse non siamo veramente così lontani dal modello Komeini. E abbiamo bisogno di riflettere sul modello Atatürk.
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“La limitazione del ruolo attivo delle donne danneggia gravemente la vita di tutti. Anche nelle attività economiche la partecipazione delle donne può cambiare profondamente le cose. Questa partecipazione attiva non genera solo dei redditi per loro; una condizione più elevata e una maggiore indipendenza delle donne comportano anche dei benefici per l’intera società. Il ruolo attivo delle donne ha una portata vastissima, eppure è uno dei settori degli studi sullo sviluppo più trascurati, e in cui una correzione è più urgente. Oggi, verosimilmente, nell’economia politica dello sviluppo niente ha un’importanza pari a quella di un riconoscimento adeguato della partecipazione e delle funzione direttiva, politica, economica e sociale, delle donne. Si tratta di un aspetto davvero cruciale dello ‘sviluppo come libertà’.”

Luisa Pogliana

Amartya Sen, Development as Freedom, Alfred A. Knopf, 1999; trad.it. Lo sviluppo è libertà, Mondadori, Milano.

(Pubblicato su Persone&Conoscenze, n°12 luglio-agosto 2005)

Recensioni: Riflessioni non per pochi.

Francesca Prandstraller, Per amore per lavoro. Storie di donne espatriate, (Guerini e Associati, 2006).

Scopriamo con questo libro un tema effettivamente poco trattato in Italia, che va sotto il nome di espatrio: il trasferimento all’estero per ragioni di lavoro di una persona, e della sua famiglia, soprattutto del partner. In particolare vediamo cosa succede quando è una donna a diventare manager internazionale, o quando una donna accetta una sorta di espatrio forzato per seguire il marito trasferito all’estero. Donne che espatriano per lavoro, o per amore. Ecco spiegata la promessa del titolo.
Il sottotitolo indica la scelta metodologica con cui l’autrice, accanto ad un’analisi delle teorie di management esistenti a questo proposito, ha sviluppato una sua ricerca: facendo raccontare direttamente ad un gruppo di donne italiane la propria esperienza di espatrio, di un tipo o dell’altro. Questi racconti e riflessioni confermano i problemi già percorsi negli studi esaminati, lasciando affiorare una cosa in più molto importante: la testimonianza di come i problemi razionalizzati negli studi di management siano fatti di grande fatica, difficoltà, e anche dolore nella vita reale di chi li vive e li affronta, spesso in grande solitudine e carenza di strumenti. Anche quando si pensa di trovarsi di fronte a situazioni privilegiate.
Il tema dell’espatrio, con tutto ciò che comporta, è pressoché ignorato dagli studi manageriali italiani, mentre è molto presente in quelli internazionali, come si vede dalla notevole bibliografia esaminata dall’autrice. Questo non stupisce: finora si è trattato di un fenomeno limitato, e lo è ancora quando si tratta di donne chiamate a coprire un ruolo professionale in un altro paese. Soprattutto in Italia, dove le donne a livelli alti di carriera costituiscono quello striminzito fenomeno che continuiamo a vedere.
Dunque la prima reazione alla proposta di questo argomento potrebbe essere di ritenerlo di scarsa rilevanza a causa della sua limitata dimensione. Ma credo che il libro sia interessante non solo per chi si trova effettivamente coinvolto nella situazione specifica dell’espatrio, ma perché l’analisi dei problemi che la caratterizzano implica aspetti di portata più generale.
Innanzitutto è facile pensare che, soprattutto in prospettiva, il management delle risorse umane internazionali sia un problema non più eccezionale per le aziende: il continuo sviluppo dell’economia ‘globalizzata’, per usare un termine riassuntivo corrente, rende questo fenomeno tendenzialmente sempre più esteso. Inoltre, per quanto riguarda le aziende sul territorio italiano, non si tratta solo dell’espatrio dal nostro paese, ma anche del fenomeno inverso, cioè di chi da altri paesi viene inviato qui a coprire ruoli rilevanti, con difficoltà che possono incidere sull’efficacia della loro attività. Conoscerle può aiutare ad ottenere i risultati attesi, evitare fallimenti anche parziali, cioè costi per l’azienda.
Uno dei temi centrali affrontati nel libro è uno dei problemi più importanti in queste situazioni, quello della transculturalità, dell’adattamento culturale e ambientale ad un paese diverso. Operazione per nulla facile e superficiale, che riguarda sia questioni di management interculturale, sia la vita privata del/della manager e dei suoi famigliari. Da un lato, dunque, doversi rapportare persone e business in un diverso contesto economico, e con diversi codici valoriali e comunicativi che costituiscono una difficoltà aggiuntiva. Dall’altro, riorganizzare la vita privata e quotidiana, personale e famigliare, in tutti gli aspetti -pratici, di relazione e sociali- (compresi i lati di cui meno si tende a parlare, per esempio gli squilibri che possono determinarsi nel rapporto di coppia).
Trovo questo uno dei passaggi meglio sviluppati nel libro, che ci porta a conoscere problemi a prima vista inaspettati, come il reverse culture shock, ovvero il riadattamento al proprio ambiente al momento del rientro. Momento che può non essere affatto un bel ritorno a casa, se all’estero ci si è abituati a situazioni migliori che ora si perdono, a volte non trovando in cambio –per quanto incredibile possa sembrare- un’adeguata valorizzazione dell’esperienza professionale e personale maturata all’estero.
Il secondo tema centrale del libro, i problemi specifici delle donne nell’esperienza dell’espatrio, si presta ancora di più a considerazioni di carattere generale sulle carriere femminili. E’ molto interessante, infatti, l’analisi delle pratiche discriminatorie che ostacolano la scelta di una donna per un incarico internazionale, dato che, per buona parte, sono le stesse che ostacolano le carriere femminili in genere. Ci ritroviamo insomma di fronte ad una serie di fenomeni ben noti, anche dove si può presupporre che ci siano condizioni di partenza più favorevoli, trattandosi di donne già a buoni livelli di carriera. E invece nel libro si documenta come anche le donne inviate all’estero sono destinate ricoprire più spesso ruoli di middle manager e gli uomini quelli di top manager, che alle donne si affidano più spesso posizioni di staff e agli uomini di line, che le donne sono svantaggiate nella selezione per questi incarichi a causa di pregiudizi di genere (in questo caso declinati in modo specifico: dubbi sulla loro disponibilità, motivazione e capacità di muoversi all’estero), che le scelte per questi incarichi vengono fatte in modo informale e in particolare nei network dei dirigenti uomini, che queste opportunità agli uomini vengono offerte mentre le donne devono candidarsi ed essere molto attive nella loro richiesta per riuscire ad essere selezionate, che i meccanismi della discriminazione si attuano sempre in modo tacito e non visibile. Esiste un dunque anche un glass border, definizione giustamente valorizzata dall’autrice, un ‘confine di vetro’ che sembra funzionare proprio con le modalità del ‘soffitto di vetro’.
Con qualche sorpresa. C’è infatti un altro aspetto che mostra come anche in questa situazione specifica si trovi conferma di fenomeni generali. Tutti, probabilmente, siamo portati a pensare che un incarico all’estero sia un incarico importante, appetibile. Eppure il libro smentisce questa assunzione automatica, e ci mostra che non sempre la proposta arriva a premiare un’ottima prestazione. Spesso, invece, si tratta di un “castello vuoto”, cioè di una posizione offerta ad una donna perché già rifiutata dagli uomini, in quanto non abbastanza remunerativa in termini di soldi, status, potenzialità. Come al tempo in cui le maestre sostituirono i maestri perché, con l’evoluzione del sistema scolastico, il ruolo non era più abbastanza prestigioso.
Anche la parte del libro dedicata agli spouse ci permette riflessioni sulle carriere femminili, quando affronta il problema della dual career, la situazione in cui entrambe le persone di una coppia stanno seguendo una loro carriera: una situazione che sta assumendo un’importanza crescente, ed è già considerata come fattore critico dalle multinazionali. Il trasferimento all’estero può determinare un blocco nella carriera del coniuge, ma appare ovvio che sia la donna a rinunciare, perché è comunque radicata l’idea che spetti all’uomo il ruolo principale di lavorare e guadagnare (e, aggiungerei, forse anche per il fatto che a parità di condizioni gli uomini continuano a guadagnare più delle donne: appare dunque razionale, a questo punto, che si sacrifichi la posizione meno remunerativa per la vita famigliare). Se poi è la donna che avanza in questa direzione di carriera, si farà più carico di figli e famiglia di quanto non farebbe un uomo, avrà molti sensi di colpa e poco aiuto dal marito (come, più o meno, tutte le donne che lavorano).
Dunque in questo libro troviamo molti aspetti nuovi, che pure vanno a collocarsi dentro a consapevolezze consolidate.
Forse si può ancora aggiungere un’osservazione. Questo libro non nasce solo da un interesse professionale, accademico, ma anche, come racconta Prandstraller nella premessa, dall’aver vissuto personalmente un’esperienza di espatrio, che le ha dato opportunità e privilegi, ma anche scelte di vita e problemi molto dolorosi. Scrivere il libro sembra essere stato un efficace modo di elaborare quegli aspetti, e forse, grazie a questo ragionare su un problema partendo dal suo problema, di farne anche una tappa significativa nella ripresa di un iter professionale che quella scelta aveva tagliato. Come una ferita.

Luisa Pogliana

(Pubblicato su Persone&Conoscenze, 2006)

Recensioni: Una lettura femminile o femminista dell'economia globale

Saskia Sassen
Globalization and Its Discontents: Essays on the New Mobility of People and Money, New York: The New Press, 1999. (Ed.it. Globalizzati e scontenti, Il destino delle minoranze nel nuovo ordine mondiale, il Saggiatore, Milano 2002).

Il libro è una raccolta di saggi riguardanti gli effetti della globalizzazione sull'organizzazione territoriale dell'attività economica e del potere politico. Con una notevole e originale sintesi di sociologia, economia politica e analisi culturale, esamina i fattori all'origine di questi processi e gli effetti sull'organizzazione dell'economia urbana, del processo lavorativo, e sulle strutture di riproduzione sociale.
Sassen parte da alcuni interrogativi centrali: perché un sistema transnazionale così esteso ha bisogno di strumenti di direzione e finanza così concentrati? Che relazione c'è tra la concentrazione nelle stesse aree dei due poli estremi della forza lavoro, qualificata e non? Come si collegano i grandi flussi migratori e gli spostamenti di capitale, entrambi funzionali all'economia odierna?
Come primo punto strategico dell'organizzazione economica globalizzata viene individuato il nuovo sistema di 'città globali', da New York e Londra a Bombay o Hong Kong, città necessarie per connettere i punti remoti di produzione, consumo e finanza in cui si concentra il potere finanziario e direzionale, e quindi anche il ristretto cerchio di professionisti specializzati con altissime retribuzioni. Ma contemporaneamente anche la vasta offerta di manodopera a bassa remunerazione, integrata in attività di servizio per il settore strategico.
"Nelle attività di routine del complesso dei servizi di punta, dominato dalla finanza, prevalgono lavori manuali, scarsamente retribuiti, svolti spesso da donne e immigrati. Benché questi tipi di lavoratori e di mansioni non vengano mai rappresentati come una componente dell'economia globale, in realtà fanno parte dell'infrastruttura di posti di lavoro essenziale per la gestione e la concretizzazione del sistema economico globale.
Qui possiamo constatare che una dinamica della valorizzazione ha accresciuto nettamente la distanza fra i settori svalorizzati e quelli valorizzati, anzi, ipervalorizzati, dell'economia.
La disuguaglianza fra le potenzialità di profitto di diversi settori esiste da sempre. Ma ciò a cui assistiamo oggi ha assunto un diverso ordine di grandezza e va generando massicce distorsioni nel funzionamento di vari mercati, da quello degli alloggi a quello del lavoro."
Il cambiamento nella struttura del lavoro riguarda soprattutto del passaggio di una serie crescente di attività ad un'economia 'informale': le imprese con possibilità di profitto scarso, in un contesto dove un significativo settore realizza sovraprofitti, vengono via via tagliate fuori dalla concorrenza e possono sopravvivere solo operando 'informalmente'.
Questo rilancia la famiglia come importante spazio economico, in quanto si verifica un indebolimento del ruolo dell'impresa nelle relazioni di impiego, e il passaggio di funzioni del mercato del lavoro alla famiglia. Fatto che riconfigura anche le relazioni economiche tra uomini e donne.
A questa svalutazione di settori di lavoro corrisponde infatti una maggior richiesta di manodopera femminile, dato che sono i servizi a basso valore aggiunto e l'industria manifatturiera urbana a subire il processo di svalorizzazione, settori dove predomina la presenza di donne e di immigrati.
"L'espansione di forze di lavoro ad alto reddito ha portato ad un processo di 'signorilizzazione' che si fonda su una vasta disponibilità di manodopera a basso salario. Questa circostanza ha reintrodotto, in una misura da molto tempo sconosciuta, l'idea di una 'classe di servitori'. L'immigrata che serve la professionista bianca ha sostituito la tradizionale immagine della donna nera che serve il padrone bianco. Vi è la congiunzione di due dinamiche nella condizione femminile testè descritta. Da un lato le donne formano una classe invisibile, priva di potere, di lavoratrici al servizio di settori strategici costitutivi dell'economia globale, senza possibilità di avanzamento aziendale.
D'altro canto l'accesso a salari e stipendi (ancorché bassi), la crescente femminilizzazione dell'offerta di lavoro e delle opportunità economiche determinate dall'informalizzazione alterano le gerarchie di genere in cui si collocano le donne. Ciò è particolarmente evidente nel caso delle immigrate. Le donne vedono crescere la loro autonomia e indipendenza, acquisiscono un maggior potere decisionale sul bilancio domestico e su altre questioni familiari e legittimano le loro richieste di aiuto agli uomini nelle faccende domestiche."
Oltre alla trasformazione dell'organizzazione dell'attività economica la globalizzazione economica comporta anche una trasformazione nell'organizzazione del potere politico, e specificamente della forma della sovranità. Il secondo luogo strategico dell'organizzazione economica attuale, infatti, è individuato dall'autrice nella "frammentazione della sovranità".
Lo Stato-nazione cessa di essere il soggetto esclusivo di diritto internazionale nonché l'attore esclusivo di rappresentanza dei cittadini nelle relazioni internazionali. Si affermano come soggetti di diritto e attori nelle relazioni internazionali anche istituzioni sovranazionali non governative, alle quali è possibile trasferire alcune funzioni di regolamentazione di questi nuovi processi economici e sociali. Tra le organizzazioni sviluppatesi in questo modo appaiono oggi cruciali, come forma di affiliazione transnazionale, proprio le organizzazioni delle donne.
Tenendo conto delle conseguenze portate dalla nuova struttura economica nell'organizzazione sociale, nei rapporti tra uomini e donne in famiglia, del nuovo tipo di presenza delle donne sul mercato del lavoro, questo fatto non appare casuale.
Ma soprattutto non è casuale che questi aspetti siano stati colti come nodi rilevanti dall'autrice.
Al centro del libro infatti si colloca uno dei saggi più interessanti, "Verso un'analitica femminista dell'economia globale". Nessun ideologismo si trova sotto questo titolo -come si può vedere dai brani citati-, ma un'analisi molto acuta e nuova della centralità del genere nella caratterizzazione dei flussi migratori, nella transnazionalizzazione della produzione e delle nuove forme di disuguaglianza che ne derivano. A conferma che una diversità di pensiero, di modo di leggere i fenomeni, come è nel caso di Sassen una lettura femminile o femminista, consente di cogliere aspetti nuovi e più illuminanti della realtà.

Luisa Pogliana

(pubblicata su Persone&Conoscenze, n° 14 2002)