sabato 30 gennaio 2010

Un articolo di Lea Melandri su Gli Altri

Il settimanale Gli altri 15 gennaio 2010, ha pubblicato un articolo di Lea Melandri su 'Femminilità al lavoro', in cui si fa riferimento anche al libro Donne senza guscio. Non sono d'accordo sulla sua impostazione politica generale (che porta anche a male interpretare qualche aspetto del libro). Ma ritengo che sia un contributo importante perché costringe (o mi costringe) a riflettere più a fondo su questioni complesse. E si tratta precisamente di cosa intendiamo per femminiltà nel lavoro (e forse per femminilità in generale). Ci tornerò sopra con riflessioni mie. In ogni caso, al di là di diverse opinioni, per me è importante l'interesse e l'apprezzamento di Lea, una persona di riferimento fin da molti anni fa.
Una segnalazione del libro è stata fatta sul sito della Libera Università delle Donne, sezione libri, cosa di cui ringrazio molto tutto il gruppo.

Femminilità al lavoro

di Lea Melandri

La “potenza dell’amore” e la “coercizione al lavoro”, dopo essersi fatte a lungo la guerra, sembrano oggi destinate a un ideale ricongiungimento, per effetto della rivoluzione che sta attraversando l’economia e per l’opportunità che essa potrebbe offrire alle donne di far riconoscere il valore del talento femminile, a lungo ignorato. "Professionalità sensuale”, “intelligenza emotiva”, “pensiero emozionale”, sono le forme linguistiche che prende il sogno d’amore –armonia di nature opposte e complementari-, quando si trasferisce dalla relazione di coppia all’ambito lavorativo. Il mito dell’interezza, che accompagna da sempre la cultura maschile, come nostalgica immaginaria riparazione a tutti i dualismi che ha prodotto, a partire dal diverso destino riservato a uomini e donne, viene oggi reclamato da versanti apparentemente opposti: da un lato, la centralità che stanno prendendo nel sistema produttivo le relazioni e i servizi alla persona, e di conseguenza il corpo, la dimensione affettiva e sessuale; dall’altro, l’affermarsi di un “desiderio” femminile che rifiuta l’alternativa tra la cura dei figli, della casa, e la volontà di “stare nel mondo”, che pensa di poter fare dell’esperienza della quotidianità “una leva per cambiare il mercato del lavoro”. ( Il doppio sì, Quaderni di via Dogana, 2008 )

Il venir meno dei confini tra la casa e la pòlis sembra aver aperto il campo a una ambigua “femminilizzazione” dello spazio pubblico, e a una non meno ambigua mercantilizzazione della vita intima. Se la precarizzazione, la perdita di diritti e garanzie certe, la pluralità imprevedibile delle occupazioni, fanno apparire il tempo di lavoro sempre più pervasivo e soffocante, e il capitalismo globale “un vampiro” (Braidotti), l’ingresso delle donne in ruoli manageriali di grandi aziende, accende, al contrario, la speranza di poter ridefinire, con un segno proprio, poteri e regole organizzative della produzione, tradizionalmente riservati agli uomini. Una volta cadute le barriere che hanno tenuto le donne, e tutto ciò che dell’umano è stato identificato col loro destino, confinati in una sorta di natura immobile, ignorata per quanto essenziale alla conservazione della specie, era inevitabile che la “differenza femminile” si mostrasse in tutta la sua contraddittorietà: potenza materna e risorsa sessuale assoggettate e poste al servizio dell’uomo, manodopera di riserva subordinata alle necessità del ciclo produttivo, libertà e creatività esaltate nell’immaginario e storicamente insignificanti. La riflessione sulle esperienze lavorative di donne di età e collocazione sociale diversa hanno oscillato, non a caso, tra marcare il “vantaggio”, il “di più” di competenza che verrebbe oggi al femminile dalla nuova economia, e ammettere invece la deriva verso forme di autosfruttamento, estese alla vita intera e tali da configurare un “contesto prostituzionale allargato”. L’Eros, che insieme alle donne e alle attitudini un tempo nascoste nel privato, si fa strada dentro le rigide, impersonali impalcature delle organizzazione del lavoro, conserva il suo volto duplice trasferendosi, contemporaneamente, in “lavori marchetta” e in materia emozionale, creativa, per forme inedite, armoniose, di un potere non più separato dalla vita. Se c’è chi cerca di svincolarsi dal coinvolgimento eccessivo, scegliendo lavori che non offrono “possibilità di grande soddisfazione”, e tanto meno conferme identitarie, altre fanno dell’azienda il luogo tanto atteso della “costruzione di sé”, di una affermazione di esistenza, prima ancora che di riuscita professionale.

“Si chiede al dipendente di mettere in gioco una certa corporeità, ammiccante e sorridente. E’ possibile che si vada creando un contesto prostituzionale allargato, legato al fatto che, quando l’attività relazionale tende a prendere il sopravvento, il soggetto debba anche lasciare agire, usare, sfruttare le capacità del corpo e la mimica della profferta sessuale (…) Nei lavori atipici la componente personale e relazionale ha un peso sempre più importante, sia nel contesto del lavoro che nella relazione contrattuale col padrone. Debbo imparare a vendermi bene, a rendermi appetibile. Non conosco i miei diritti, non saprei con chi discuterne nel mio posto di lavoro” ( Posse. Divenire-donna della politica, Manifestolibri 2004)

“ C’è una sorta di rumore bianco che accompagna una donna in azienda, qualunque sia il ruolo da lei ricoperto, e richiede una certa attenzione: la donna è prima di tutto un corpo, c’è sempre una riconduzione alla fisicità, al suo essere nel ruolo di donna prima che in qualunque altro ruolo prima di essere lì come manager (…) Ogni donna sa che quando entra in una riunione o parla ad una platea, è in primo luogo giudicata per come è vestita, pettinata eccetera (…) Si può dire che anche nel clima aziendale è penetrato il modello ‘velina’ e simili (…) L’esibizione della seduttività non è
apprezzata solo su un piano personale, ma è una specie di requisito non ufficiale, ma certo preso in considerazione”. (Luisa Pogliana, Donne senza guscio, Guerini e Associati, 2008)

La discussione che riguarda le donne e il lavoro, da qualunque parte venga fatta, non riesce a sottrarsi al binomio uguaglianza/differenza, che ha contagiato anche parte del femminismo, nonostante si sia affermata da tempo la consapevolezza che si tratta di un falso dilemma imposto dal potere maschile. Se è stato facile, per la generazione degli anni ’70, prendere distanza da un’idea di emancipazione che andava a confondersi con modelli virili, più tortuoso e tuttora incerto si è dimostrato il processo di liberazione che avrebbe dovuto criticare ogni forma di dualismo, di complementarietà, di riunificazione degli opposti. Colpisce il fatto che siano proprio le donne, nel momento in cui si sfrangiano e si eclissano le identità e le appartenenze di ogni tipo, a impugnare, come rivalsa o affermazione di autorevolezza, una ‘natura’ o un ‘genere’ femminile usati dalla civiltà dell’uomo per tenere le donne in uno stato di minorità sociale, giuridica e politica. Ma forse sta proprio in questa “incongruenza” uno dei nodi irrisolti della questione dei sessi. Di incongruenze e contraddizioni sono piene, non a caso, le analisi che più esplicitamente si sono poste l’obiettivo della “valorizzazione delle differenze di genere”.
“Pensiamo a certe richieste di piccoli lavori di servizio –scrive Pogliana- che a un uomo, in certe posizioni, non verrebbero mai fatte. In queste prassi troviamo spesso il tentativo di ricondurre la donna al suo essere donna, sminuendo il suo essere una professionista al lavoro. Soprattutto mettere appena possibile la donna in un ruolo ancillare. Come a ricordare che, qualunque sia la posizione acquisita, agli uomini spettano i ruoli strategici, di pensiero, alle donne quelli esecutivi, organizzativi. Oppure (che novità) riconducendo la donna ai suoi ruoli privati: essere madre, o essere interessante per l’aspetto fisico (…) Stabilire buone relazioni, curarsi delle persone, è anche un modo di rispondere a un bisogno non sempre esplicitato: mettersi al riparo dal conflitto. E’ uno dei problemi che le donne vivono nelle relazioni di lavoro, o forse in tutte le relazioni: incapacità di gestire situazioni conflittuali senza soffrirne troppo, senza sentirsi messe in discussione, private di un riconoscimento.”

“Anche nei Paesi nordici il tempo parziale e la flessibilità degli orari sono richiesti soprattutto da donne. Questo accade perché ci trasciniamo dietro rimasugli della vecchia divisione del lavoro tra i sessi? Oppure perché a molte quel lavoro piace? Oppure perché nella convivenza il conflitto tra i sessi è poco gestibile e la legge non aiuta?” (Doppio sì).

La conciliazione di amore, cure materne e lavoro, la ricerca dell’interezza della persona, nonostante le evidenti ricadute “ancillari”, sia nel privato che nel pubblico, continua a essere perseguita dalle donne stesse, incuranti delle fatiche e delusioni a cui vanno incontro. L’accanimento a volere che sia riconosciuta l’”autorevolezza” femminile anche in ambito produttivo, è pari alla messa in ombra del potere ancora saldamente in mano maschile e degli interessi economici dominanti. Ma è solo il bisogno di essere amate, l’attesa di una contropartita affettiva, a tenere le donne ancorate al sogno di una “armoniosa famiglia integrata”? Nel capovolgimento delle parti, non è forse una femminile onnipotenza -accedere al potere pubblico senza rinunciare a quello privato, seduttivo e materno- che inconsciamente le donne desiderano e gli uomini temono?

L’interrogativo si potrebbe formulare anche in un altro modo. Se oggi è il sistema produttivo, la nuova economia, ad aver bisogno del “valore D”, come vanno ripetendo da tempo i giornali della Confindustria, perché le donne in carriera notano tanta resistenza dei loro “capi” a riconoscere l’apporto creativo a un migliore funzionamento dell’azienda che esse possono dare? Perché prevale la tendenza a “usare” la loro dedizione materna, la “sovrabbondanza” del loro impegno lavorativo, come avviene per quel ‘dono d’amore’ che è, nella famiglia, il lavoro di cura? E’ come se ci fosse, dentro l’economia capitalista, un residuo patriarcale che ne frena lo sviluppo: i dirigenti, coloro che hanno il potere di decidere avanzamenti di carriera, definire i criteri di valutazione, sono innanzi tutto uomini, che non hanno alcun interesse a lasciarsi crescere al fianco, nei luoghi storici della loro autonomia, una potenza femminile più libera e più forte di quella conosciuta nel privato.

http://www.universitadelledonne.it/lea15-1-10.htm

venerdì 29 gennaio 2010

Esperienze dai seminari formativi, ovvero incontri di presa di consapevolezza.

Sono diversi e di diverso tipo gli incontri formativi che ho avuto l'opportunità di fare a partire dai contenuti e dall'approccio del libro. Ci sono cose che mi danno molta soddisfazione in queste esperienze.
La prima è immediata, quando vedo crescere, tra le donne che partecipano, un senso di sollievo, quando capiscono di non essere solo loro a provare quello provano, a vivere quei problemi, a sentirsi inadeguate o incapaci. Perché per quanto ne parliamo da tanto tempo, è incredibile il senso di solitudine diffuso tra le donne che lavorano, che si sono scelte il lavoro come parte della costruzione di sé. Forse perché il movimento delle donne in passato si è viluppato molto di più sui temi che partivano dal privato, e il lavoro è arrivato a imporsi in tempi più recenti. Forse perché è ora che le donne si presentano massicciamente e irreversibilmente sul mercato del lavoro anche qualificato. Comunque, incontrando donne in situazioni diverse, trovo un fortissimo bisogno di parlare, discutere, confrontarsi con altre a questo proposito.
Mi viene proprio da dire che questo è il momento. E' ora matura una necessità e una consapevolezza. E dunque aver fatto questo libro, e fare questi incontri di 'formazione a rovescio' rispetto al lavoro mi dà un senso di utilità, di fare una cosa piccola ma con un senso.
C'è anche un altro aspetto: io esco da questi seminari sempre molto arricchita. In questi incontri lavoriamo sul raccontare di sé, scrivendo e poi leggendo insieme la propria esperienza, il proprio sentire, gli episodi illuminanti, i pensieri. E io raccolgo sempre un fiorire di riflessioni, di scarti inattesi nella lettura di situazioni note, di manifestazioni sconosciute degli stessi meccanismi di fondo, di racconti che lasciano allibite, di visioni spiazzanti.
E queste donne sono donne come lo siamo tutte, normali, verrebbe da dire. Eppure, ogni volta si esce con un lavoro che lascerà belle tracce, qualche spostamento che resterà. Succede partendo da sé e scambiandosi esperienze, rispecchiandosi, e soprattutto: mettendosi in condizioni -di tempo, tranquillità, stimolo, anche forzatura magari- per riflettere sulla propria vita. Si prende consapevolezza e si esce con qualche strumento in più, con la voglia di restare in relazione con le altre donne con cui si è fatto questo lavoro, si esce un po' più padrone di sé, un po' più signore della realtà in cui si è immerse. Al termine di questi incontri mi ringraziano. E io ringrazio loro, perché non esisite nessuna formazione unidirezionale, il passaggio da chi sa a chi non sa ancora. Un'informazione, un'istruzione magari può funzionare così. Ma quando dico a queste donne: guardate che il lavoro lo avete fatto voi con me, non è retorica. E' vero.
Be', sotto l'impressione di questi incontri, ho pensato utile parlarne qui, riprendendo qualche aspetto raccolto.
Intanto un fatto interessante è che, da committenze diverse, sia stato richiesto di concentrare l'attenzione sul rapporto con il potere aziendale. Che in realtà si trascina molti degli aspetti che caratterizzano il nostro essere donne in questi lavori. (Ho messo dunque qui in fondo e nel post dedicato ai percorsi formativi lo schema di questo tipo di incontri).
Questo si è confermato un nodo centrale e difficile per tutte, pur in situazioni molto diverse. Così è stato con le partecipanti al master BEW24 del Sole 24 ore, dove le partecipanti sono dirigenti o donne in un percorso di carriera aziendale, professioniste come avvocate o consulenti, imprenditrici. Quindi ambiente di aziende private e di lavoratrici autonome.
Ma lo stesso è avvenuto con donne professionalmente molto diverse. Per iniziativa della Consigliera di Parità della Regione Piemonte, Alida Vitale, abbiamo fatto a Torino un seminario di una giornata con le donne che compongono i Comitati Pari Opportunità delle aziende pubbliche. Quindi tutt'altro ambiente, con maggiori rigidità organizzative e di cambiamento, con culture più arretrate, e con lavori spesso meno qualificati. In più queste donne, assumendosi un ruolo rispetto alle politiche di pari opportunità, sperimentano anche il rapporto con ambienti politici e sindacali. Bene, le dinamiche di fondo, i nodi da affrontare, la qualità delle esperienze e della cultura aziendale sono sostanzialmente uguali.
Capita anche che affiorino stimoli su cui vale la pena di lavorare più approfonditamente.
Per esempio, è successo a Catania, in un incontro per giovani agli inizi di carriera, che partecipassero alcune ingegnere e alcuni ingegneri (maschi). Si parlava delle strutture informali di appartenenza, quelle occasioni di incontro al di fuori delle ore e dei luoghi canonici del lavoro che in realtà permettono di stabilire relazioni amichevoli che poi agiscono anche nelle relazioni di lavoro. E i ragazzi presenti si sono un po' alterati dicendo 'che è colpa loro' (delle donne) 'perché noi giocando insieme nelle partite di calcio aziendali stringiamo dei rapporti che poi restano forti anche sul lavoro'. Appunto: è colpa loro se vengono escluse da situazioni che marcano l'appartenenza ai circuiti che contano, quelli maschili. C'era da farsi prendere dallo sconforto. Eppure subito altre ragazze hanno raccontato che nella loro azienda -di piccole dimensioni- hanno promosso degli incontri da 'tempo libero' che mettessero insieme uomini e donne: andare insieme a gite culturali, o, se sport dev'essere, andare a sciare o a correre insieme. Possiamo restare perplesse, pensare che siano escamotage non strategici. Ma le pratiche che provano a cambiare il terreno di gioco (dal senso reale al senso anche simbolico) mi sono sembrate una cosa da non disprezzare. Anche per la capacità dimostrata di pensarle e metterle in atto.
E' successo invece a Milano, nella giornata al master del Sole 24 ore Business Education for Women, e in un altro incontro di tipo associativo, di trovare testimonianze sul passaggio generazionale. Cosa succede quando il passaggio dell'azienda avviene non di padre in figlio, ma di padre in figlia? e ancora più: di padre in figlia e figlio. Cosa succede quando l'azienda del padre opera un settori molto maschili, dove dipendenti, clenti e fornitori sono abituati ad avere il padre -un uomo- come figura di riferimento?
Mi sono imbattuta in giovani imprenditrici che hanno dovuto sopravvivere alla disistima familiare, che non le riteneva adatte a subentrare nel ruolo, in quanto donne. Ancora più se in presenza di un fratello: anche se meno dotato o meno affidabile, diventava l'eletto. A volte erano loro stesse a favorire un ruolo più importante per i fratelli assumendo verso di loro un atteggiamento materno-sacrificale, o introiettando il giudizio di inadeguateza. Ne ho incontrata una che dopo un crisi depressiva se n'è andata dalla società di famiglia per fondare la sua impresa. E quelle che si sono trovate ad ereditare il ruolo in ambienti molto maschili hanno avuto esperienze pesanti: alcune hanno dovuto nascondersi dietro un ruolo di pura facciata giocato da mariti o fidanzati (che in realtà non si occupavano dell'azienda), o presentarsi come portavoce di un imprecisato gruppo di soci, o conquistarsi l'accettazione con gentilezza e regali, più che facendo una poco credibile imitazione di durezza maschile. Storie incredibili, oggi, a Milano. Eppure vere. Un tema che vorrei proprio continuare a indagare specificamente. Vedrò come fare.
Per ora, ho visto che di uno di questi incontri si è parlato e anche scritto, e allora lo segnalo.



Incontro "Conoscere le organizzazioni, comoscere se stesse"
I RAPPORTI CON LE STRUTTURE DEL POTERE,
LA NEGOZIAZIONE CON LA GERARCHIA E L'AUTOVALORIZZAZIONE

Contenuti

I -I rapporti con il potere aziendale: un'area problematica
• Un difficile rapporto con il potere e le sue cause:
Inesperienza, solitudine, ingenuità. Una diversa concezione del potere
• Le strutture formali e informali del potere in azienda:
L'opacità dei meccanismi del potere. Appartenenza ed esclusione femminile
II - ll rapporto con la gerarchia: valorizzarsi e negoziare
• Dinamiche relazionali e aspetti psicologici nella negoziazione:
Affettività e relazioni simboliche. Remunerazioni immateriali.
• La difficoltà di valorizzarsi e di chiedere. Le cause: Insicurezza e scarsa autostima
III – Strumenti
Lobby, networking, mentoring, relazioni tra donne

martedì 26 gennaio 2010

Una recensione su FOR

Renata Borgato, nota per la sua attività di formatrice, mi ha inviato in anteprima una sua recensione del libro preparata per il prossimo numero di FOR, rivista dell'AIF, Associazione dei Formatori Italiani.
La riporto qui, ringraziando tantissimo Renata, che ha dato la sua intervista per il libro, e lo ha sotenuto anche promuovendone la presentazione alla Casa della Cultura a Milano.

Alcuni libri sono importanti non solo per quello che dicono, ma anche per il momento in cui lo dicono, per la capacità che hanno di cogliere con precisione e di rappresentare le dinamiche che sono in corso, facendo sintesi di quanto è avvenuto prima, inducendo a riflettere sul presente e facendo balenare i possibili sviluppi. Il libro di Luisa Pogliana è uno di questi.
La metafora contenuta nel titolo “Donne senza guscio” indica inequivocabilmente che nel libro si parla di un momento di transizione. I granchi sono senza guscio nella delicata fase in cui hanno perso il vecchio carapace e sono in attesa che quello nuovo si ricostituisca. Una fase in cui non sono protetti, fragili. Per tornare alla metafora, il loro stato rappresenta bene quello in cui si trovano oggi le donne nel mondo del lavoro.
Il centro di interesse intorno al quale si sviluppa il libro di Luisa Pogliana non è quello della presenza femminile nel mercato del lavoro: non si occupa di percentuali, di distribuzione o di coorti di età, ma quello del modo con cui le donne che lavorano vivono: il complesso intreccio di relazione con se stesse, l’immagine che si ha di sé e quella che si proietta all’esterno, le relazioni con le altre e con gli altri. Un tutto in cui il lavoro ha una parte importante.
Sarebbe riduttivo pensare solo al doppio ruolo, alle contraddizioni, alle difficoltà di chi si deve reinventare un guscio. E forse lo desidera o forse no: il guscio protegge, ma al tempo stesso limita, impedisce di svilupparsi. E poi, necessariamente, deve essere cambiato. La pelle è senz’altro più delicata, ma asseconda i cambiamenti. In ogni caso, che lo si rimpianga o che ci se ne senta liberate, il vecchio carapace non c’è più. Ed è probabile che in questa fase delicata e appassionante, in cui ci si deve proteggere, ma al contempo è possibile espandersi, in cui ci si può raffigurare in una forma ancora ignota, in cui non ci sono modelli, si abbia bisogno di specchi. Per vedere se stesse riflesse negli occhi di quante ci somigliano per genere e stato e di quante ci somigliano meno e proprio per questo ci svelano dei punti di vista e delle opportunità a cui non avevamo pensato.
Uno degli elementi di interesse – e di fascino – del libro di Luisa Pogliana è costituito dal fatto che è uno specchio. E che lo specchio è piccolo: quelle che vi si guardano dentro, e che si fanno guardare, rappresentano una parzialità e non solo perché costituiscono un frammento, senz’altro minoritario, delle donne che popolano il mercato del lavoro. In questo senso un merito di Pogliana è quello di essere sfuggita alla tentazione di generalizzare e di aver capito che la complessità si coglie più completamente proprio se si sa guardare il particolare. Pogliana parte da un dato autobiografico: l’autrice ha vissuto la maggior parte della sua vita lavorativa in una grande azienda italiana, leader nel suo settore. Per molti anni è stata dirigente, direttore di uno staff. Essere donna e manager è stata la sua vita di lavoro.
Via via che viveva questa vita, le soddisfazioni e la rabbia, la crescita e gli ostacoli, e ragionava attorno a quello che succedeva a lei e intorno a lei, maturava il suo desiderio di scrivere proprio su questi delicati temi. Voleva elaborare e riflettere sulla sua vita, e da essa partire per documentare, trasmettere, discutere. Come Pogliana stessa sottolinea, è stata mossa soprattutto da un bisogno di giustizia, rispetto a una cultura aziendale ancora così escludente, limitante e iniqua verso le donne. Dunque il suo scopo nella scrittura del libro è stato quello di far vedere come è in realtà la vita quotidiana delle donne manager, di mostrare quali sono i fattori frenanti che condizionano una piena realizzazione di sé nel lavoro, e i prezzi che si devono pagare. Ma anche le pratiche possibili.
Così, partendo da sé stessa, Pogliana ha pensato di coinvolgere in un percorso di riflessione altre donne che vivono situazioni simili. Si tratta quindi di una ricerca fondata sull'esperienza diretta e sulla testimonianza di chi ben sa cosa significa lavorare in azienda: osservare con gli occhi e le emozioni di chi quella condizione l'ha vissuta cambia le chiavi di lettura. Come Pogliana stessa dice, ha scelto di confrontarsi con donne che non sono un semplice 'campione rappresentativo', ma una moltiplicazione dei punti di osservazione e di riflessione. E l'autoanalisi si è manifestata come occasione di analisi.
Quello che più ha interessato Luisa Pogliana è stato il fatto di mettere in evidenza è che queste donne cercano un personale modo di realizzarsi nel lavoro senza appiattirsi su modelli dominanti. Hanno saputo trovare soluzioni concrete e personali, mettendo in atto tentativi di rottura delle regole aziendali. Perché la cultura aziendale dominante prevede un modello unico di management, che di fatto ostacola le donne, con meccanismi decisionali non trasparenti che consentono favoritismi e cooptazioni tra uomini, possibili anche per l'assenza delle donne dalle strutture dove si esercita il potere. Facendo i conti anche con i freni che agiscono dentro di sé, derivati da un'esclusione secolare dall'agire pubblico, che genera insicurezza, scarsa autostima, difficoltà a valorizzarsi e a chiedere.
Ognuna di queste donne ha cercato di esprimere nel lavoro la propria soggettività, intendendo con ciò la consapevolezza di sé, di quello che si desidera, e la determinazione ad agire perché il desiderio si trasformi in realtà.
Queste donne non costituiscono chissà quale modello, ma sono tutte persone che una via se la sono trovata, stando nella situazione data, senza aspettare le soluzioni da altri. Hanno trovato la strada lavorando sul qui ed ora, senza deleghe e senza alibi. Una grande assunzione di responsabilità, perché è vero che tutto ha un'origine sociale, ma le cose accadono a livello individuale, e questo non possiamo eluderlo.
Le donne che hanno collaborato cercano un personale modo di realizzarsi nel lavoro senza appiattirsi su modelli dominanti. Ognuna ha saputo trovare soluzioni concrete e personali, nella situazione data, senza deleghe e senza alibi. Hanno messo in atto tentativi di rottura delle regole aziendali e dei meccanismi del potere costruiti storicamente a misura d'uomo che ostacolano le loro potenzialità.
Infatti queste donne hanno un modo diverso di pensare al lavoro e alla carriera,
amano il lavoro, che è prima di tutto una prospettiva di autorealizzazione. Per loro la carriera è una scelta, non un obbligo sociale su cui si appiattisce tutto il resto, ma un percorso flessibile per accogliere gli altri aspetti della vita, inserito in un progetto di vita intero.
A partire da questo si delinea un diverso modo di esprimere il ruolo manageriale e la leadership, criticando i limiti delle regole correnti e indicando cambiamenti possibili.
Innanzitutto rispetto ai modelli organizzativi, creati dagli uomini a loro misura. Soprattutto per l'uso del tempo, con la richiesta di una disponibilità illimitata a prescindere dalle necessità reali, e la rigidità degli orari, non sempre necessaria e funzionale. Così, contro le dominanti carriere presenzialiste, si chiede lavorare per obiettivi e un sistema premiante meritocratico, ovvero basato sul raggiungimento degli obiettivi. Si chiede un sistema più trasparente.
Infatti l'altro grande nodo critico riguarda proprio le strutture del potere, che operano senza trasparenza, tramite favoritismi e cooptazione in totale opacità ed arbitrio.
Le donne che si raccontano nel libro delineano un modo di essere manager che non si struttura in un modello stereotipato - il femminile da contrapporre al maschile - ma che significa essere se stessa nel ruolo. E senza ignorare i vincoli entro cui si muovono, cercano di cambiare il contesto in un modo più corrispondente a sé.
Il libro dunque vuole mettere in circolo tutto questo permette di rispecchiarsi, apprendere dallo scambio di esperienze, di sentirsi meno inadeguate, meno sole. Trovarsi nelle altre si apre la possibilità di trovare percorsi praticabili nonostante i contesti sfavorevoli e ingiusti.
Queste donne infatti portano nel lavoro la loro differenza, in questi ruoli un diverso modo di essere. A cominciare dalla loro visione del lavoro e della carriera, così lontana da tutto ciò che viene posto come modello unico, ma così efficace perché vicina al loro modo di essere, capace di non lasciare fuori parti della realtà. Il lavoro è una scelta di autorealizzazione, queste donne amano il loro lavoro, e la carriera non persegue un solo progetto a tappe forzate, ma è un percorso flessibile per accogliere gli altri aspetti della vita. Il lavoro è imprescindibile ma inserito in un progetto di vita complessivo, di persone intere e indivisibili.
A partire da questo emergono alcune costanti di un modo femminile di interpretare il ruolo manageriale.
Per esempio, i modelli organizzativi sono criticati nelle rigidità e ritualità insensate che ostacolano le donne, e riformulati. Contro le carriere presenzialiste e le conseguenti rigidità di orario a prescindere dalle necessità, per un sistema realmente meritocratico, che basi le valutazioni sul lavorare per obiettivi (che, tra l'altro, risolverebbe molti aspetti del famigerato 'problema' della maternità). Così come importate è l'attenzione alle persone, nella consapevolezza che se si sta meglio si lavora meglio.
Insomma, le donne mostrano che non esiste un modello unico di management, buono per tutti e tutte. E cercano di cambiare i codici, l'organizzazione del lavoro, i tempi, le relazioni, le regole, senza ignorare i vincoli entro cui si muovono, ma tenendo conto di come sono loro. E delineando così uno stile femminile di management, che è prima di tutto essere se stessa.
Così in queste 'normali' storie di donne con percorsi manageriali possiamo trovare indicazioni diverse, coraggiose, utili anche per il percorso di altre. Non per trovare soluzioni ready-made, ma alla ricerca di qualche 'chiave' soggettiva, eppure replicabile.
Mettere in circolo tutto questo ci permette di sentirci meno inadeguate, meno sole, di trovare nelle altre ciò che apre a possibilità di risposte non individuali e non isolate. Rafforzandoci nella fiducia di poter trovare percorsi praticabili nonostante i contesti sfavorevoli e ingiusti.
Procedendo in questo modo Pogliana ha anche seguito un metodo prezioso per procedere nelle indagini sociologiche. Ciò che ci è vicino ci permette di analizzare a fondo le infinite sfaccettature delle diversità. Ci insegna per somiglianza e per differenza.
Raccontarsi e raccontare permette alle persone di fare chiarezza in se stesse e soprattutto di dare diritto di cittadinanza a tanti pensieri e a tante difficoltà che rischiano di farci sentire deboli e – in una società col mito della forza – di conseguenza colpevoli. Raccontarsi e raccontare permette di intrecciare il proprio vissuto a quello di altre e di altri e a trasformare l’autobiografia personale in storia di una cultura. Rafforza e abilita. Forse permette persino di rappresentarsi un momento in cui il guscio non sarà più necessario. Il libro ci aiuta a fare un piccolo passo in questo senso. E di questo personalmente sono grata all’autrice.
Devo ringraziare il libro anche in quanto formatrice. Quando parlo del mio lavoro dico consapevolmente “sono una formatrice” e non “faccio la formatrice” e so di indicare in questo modo un’identificazione forte con il mio lavoro: guscio o pelle che sia. Per questo mi riescono preziose tutte quelle letture che mi danno stimoli per svolgere meglio la mia attività.
Donne senza guscio è uno strumento prezioso da utilizzare nei corsi di formazione perché se ne possono fare utilizzi innumerevoli. Può introdurre all’uso formativo della pratica autobiografica personale e di azienda, far riflettere sulle potenzialità dello storytelling. Può fornire case history, esempi da sviluppare attraverso induzione e deduzione. E soprattutto può far sentire che non siamo sole, pur nella nostra unicità. E quindi renderci più forti.
Renata Borgato

lunedì 25 gennaio 2010

Recensioni: Ancora Italia Oggi, e Lauro Venturi su Bloom

Una nuova recensione è apparsa su Italia Oggi. Di questa, non firmata, credo comunque di dover ringraziare Walter Passerini.

Su Bloom è uscita una recensione di Lauro Venturi, Consigliere Delegato di Fidimpresa, che l'ha messa anche sul suo sito. Mi fa piacere che, pur nella sua gentilezza, lasci affiorare dubbi e interrogativi. Questo mi sembra indicativo di un interesse reale, che non liquida i temi con un po' di elogi.

domenica 24 gennaio 2010

Un intervento a Gamma Donna.

Il 28 e 29 gennaio 2010 si terrà a Torino il 3° Salone dell'Impreditoria Femminile Gamma Donna. Venerdì 29 (9.30-11.30) si terrà una tavola rotonda su Diversity Management: Investire conviene alle imprese?. Simona Cuomo, dell'Osservatorio sul Diversity Management della SDA Bocconi, presenterà una ricerca sulla situazione delle aziende italiane a questo proposito. Nel panel di discussione ci saranno rappresentanti di aziende, la Consigliera Nazionale di Parità Alessandra Servidori e la Consigliera di Parità Regionale del Piemonte Alida Vitale. In conclusione ci sarà un breve intervento mio, che riporto qui sotto.

Potete fidarvi delle donne, Potete fidarvi di più
.
Questa tavola rotonda ci ha presentato un quadro esauriente di dati e di commenti su perché investire sul management femminile. Io vorrei aggiungere un elemento che potremmo chiamare un asset intangibile. Visto che sono qui come autrice di Donne senza guscio, prendo spunto da un episodio raccontato da una donna manager, una delle 30 di cui ho analizzato le esperienze in questo libro.
“Nella mia azienda ci fu un momento di crisi molto seria. Fui convocata dal mio capo, mi disse che contava molto su di me, perché ero tra gli elementi migliori. Io ero orgogliosa per questo atto di stima e mi impegnai in modo straordinario per mesi. Quando si videro i primi risultati, il capo mi espresse tutta la sua soddisfazione per il mio lavoro: ero stata bravissima. E io usci dalla sua stanza felice. Non ebbi altro”.
Ecco: un'azienda in crisi e la reazione di una sua dirigente. L'interesse dell'azienda prima di tutto. Ad un uomo non sarebbe mai successo. Un uomo avrebbe contrattato prima e preteso dopo. Certo, si potrebbe liquidare l'episodio facilmente: la solita incapacità di chiedere delle donne. Eppure, molte volte ciò che si chiama errore è un pregio non valorizzato.
Bisogna partire dalla base: la scelta di fare un lavoro qualificato e impegnativo non è un obbligo sociale per una donna. Quindi cercare un percorso professionale di alto profilo nasce da una forte motivazione personale.
Per un uomo, invece, il modello sociale si fonda imprescindibilmente sul lavoro, sul successo. Si potrebbe dire che mentre un uomo deve, una donna sceglie di fare carriera. Dunque se è arrivata ad un ruolo manageriale ha già superato condizionamenti sociali e filtri aziendali che un uomo non conosce nemmeno, ed è due volte più preparata e motivata.
Ma c'è dell'altro: diversa è anche la sua aspettativa verso il lavoro. Il lavoro per queste donne comporta benefici che vanno oltre il guadagno economico. Ciò che vogliono riguarda soprattutto le possibilità di autorealizzazione, di costruzione di sé, per questo le donne amano il loro lavoro- Perciò possiamo dire che in questo rapporto c'è sempre una presenza di eros, inteso come forza vitale e creativa. E dove c'è eros c'è gratuità, c'è dono.
Questo modo di essere verso il lavoro coinvolge anche l'azienda, con cui le donne stabiliscono una relazione basata su una forte lealtà, su un atteggiamento etico sorprendentemente diffuso.
Vengono in mente episodi della cronaca recente, con le crisi finanziarie di grandi società. Al cui vertice abbiamo visto top manager con retribuzioni avide e a fronte di danni per l'azienda.
Eppure non abbiamo mai sentito che tra di loro ci fossero delle donne.
Certo, sono poche in posizioni di grande potere, ma intanto quelle poche non sono così (e l'unica persona che a Wall Street aveva avvertito che quella finanza avrebbe portato a disastri è stata una donna).
Ci sono invece nelle aziende molte donne con meno visibilità ma in quelle posizioni chiave che fanno funzionare l'azienda, e sono preziose proprio per l'attenzione che pongono agli interessi aziendali. D'altra parte, chi conosce la vita aziendale sa che, di fronte ad un problema, un uomo pensa a chi delegarlo e come può trarne vantaggio, una donna dice 'ci penso io', e si impegna duramente per risolverlo.
Ce n'è abbastanza per dire ai vertici aziendali una cosa che vale sempre, ma tanto più in tempi di crisi. Se dovete assumere un persona, assegnare un ruolo di responsabilità, affidare un progetto, a parità di condizioni scegliete una donna. Perché potete fidarvi delle donne. Potete fidarvi di più.

sabato 16 gennaio 2010

Discussione sul libro nel blog di Stefanella Campana

Stefanella Campana, giornalista de La Stampa, nel suo blog ha proposto i temi del libro invitando i lettori a discuterli, ad esprimere i loro pareri. La ringrazio molto per aver aperto una discussione su questi argomenti, e aver pensato che il libro sia uno strumento utile per farlo.
Segnalo il link, sarà utile seguire le opinoni raccolte in proposito.

http://www.lastampa.it/_web/CMSTP/tmplrubriche/giornalisti/grubrica.asp?ID_blog=156&ID_articolo=58&ID_sezione=326&sezione=

venerdì 8 gennaio 2010

"Giorno per giorno" dedica mezz'ora di discussione al libro e ai suoi temi

Giorno per giorno, la tramissione di Telesubalpina condotta da Elena Del Santo (giornalista de La Stampa), dedica mezz'ora a Donne senza guscio. A discutere con me dei temi del libro ci sarà una rappresentante di AIDDA o una donna manager torinese.
In onda martedì 19 gennaio dalle 12.45 alle 13.15.

domenica 3 gennaio 2010

Le 100 donne dell'anno. Marina Terragni aiuta la memoria

Capodanno, si sprecano i bilanci dell'anno passato. Ma ne ho visto uno su cui vorrei richiamare l'attenzione. Sembra semplice, ma è una cosa a cui vale la pena di dare un'occhiata e di spenderci sopra una riflessione. E' una classifica delle 100 donne che, per un motivo o per l'altro, sono state rilevanti negli avvenimenti dell'anno appena finito. La stila Marina Terragni, giornalista ben nota che tiene una sua rubrica su Io Donna (si, superiamo gli snobismi: prendiamo una cosa buona da una rivista 'femminile' mass market). Tanto interessante che viene segnalata nella newsletter della Libreria delle Donne di Milano . La propongo qui proprio attraverso il link con quest'ultima: http://www.libreriadelledonne.it/news/articoli/Iodonna171209.htm
Personalmente avrei fermato la classifica un po' prima del numero cento: non provo interessi particolari per certe scelte, e magari non condivido qualche commento. Ma questo è normale e poco rilevante. Quello che mi sembra rilevante è vederli tutti insieme, questi nomi, vedere tutte queste donne e cosa sono state capaci di fare. A volte cose stupefacenti e silenziosamente. Eppure spesso, dopo essere affiorate nelle cronache, sparite dall'attenzione, dalla riflessione.
Ce n'è abbastanza per ringraziare Terragni per questo lavoro .
E soprattutto, dopo aver letto l'elenco, mi sembra rilevante un piccolo test: di queste 100 donne, quante ne conoscevamo? Quanto sapevamo di loro? E chiediamoci perché.

Scritto per Bloom, gennaio 2009

Donne manager e crisi: un articolo e altre riflessioni




Stile di guida, erotismo ed etica femminile

di Luisa Pogliana

Da quando la crisi si è manifestata in tutta la sua gravità, diversi convegni sul management femminile hanno preso in considerazione l'apporto che le donne possono portare in questa congiuntura in molti casi drammatica. Si parla di cose note, soprattutto il pensiero e la visione diversa che apre a conoscenze e soluzioni nuove. Ma ci sono aspetti su cui, mi pare, non si riflette molto, perché le donne stesse spesso non ne sono consapevoli: capacità che vengono messe in atto in modo 'naturale', e per questo non valorizzate. Penso al fatto che le donne sono più adatte a gestire le situazioni complesse. Penso all'affettività che portano nel lavoro e all'attenzione per le relazioni, per le persone. Penso che hanno una diversa e profonda etica del lavoro.1
Gestire la complessità
Essere multitasking, delegare le incombenze operative, stabilire carichi e ruoli, definire le priorità, fronteggiare l'imprevisto, trovare soluzioni per situazioni non standard. Ecco i compiti che vediamo in opera nella gestione della della normale vita quotidiana di ogni donna che investe nella realizzazione professionale senza rinunciare a quella nella famiglia, nei figli. Vita 'privata', insomma. Ma sono anche i compiti manageriali richiesti in azienda, soprattutto ora.

"Come si diventa bravi manager? Vorrei partire da un punto di vista di cui non si parla, dall’esperienza di chi, come me, oltre a svolgere un ruolo manageriale, è anche mamma. Sì perché oggi, fare la mamma, presuppone qualità e doti del tutto simili a chi ha ruoli di responsabilità all’interno di un’organizzazione. Per organizzare le attività di un ragazzino bisogna possedere grandi abilità di pianificazione. Per far sì che il corso di basket non si sovrapponga con il catechismo che a non deve interferire né con il dentista né con il corso d’inglese... Perché nel quotidiano di una mamma nulla può andare storto, e gestire con successo un evento imprevisto fa parte della normalità. Chi è abituato a gestire tutte queste attività (soggette a un’elevatissima percentuale di imprevisti) ha sviluppato un talento per l’organizzazione e la pianificazione ,e la capacità di decidere le priorità. Una mamma alle prese con le avversità del quotidiano ha imparato a dare il giusto valore alle cose. Se il figlio ha l’influenza basterà un po’ di antipiretico, se ha la polmonite qualche notte in ospedale è da mettere in preventivo. Così in ufficio, riconoscere le priorità e dar la precedenza alle urgenze diventa più naturale, i problemi vengono collocati nella giusta dimensione. Ed è questo che fa di un manager un bravo manager”. “Noi, con i figli, siamo allenatissime a fronteggiare l'emergenza, e a trovare la soluzione valutandone correttamente la portata e le priorità. Pensa a quanti soldi spendono le aziende per mandarci a fare i corsi sul 'problem solving' e il 'decision taking'”. “La settimana scorsa ero in India, e durante la riunione arriva sul blackberry il messaggio di mio marito: 'bambino febbre a 40, baby sitter ammalata, io lo porto a scuola'. Lo diffido, e comincio a cercare una soluzione. Devo trovare una persona, ma una che il bambino conosce. Alla fine ho mobilitato una mia vicina ora in pensione. Intanto ho continuato la riunione”.
Dunque dall'altra vita, dal fatto che vivono sempre in più mondi contemporaneamente, ognuno con necessità, problemi, richieste, scenari diversi, le donne importano nel loro lavoro un ventaglio più ampio di approcci e soluzioni, di capacità e maturità. Portano avanti un progetto dove non c'è separazione e gerarchizzazione delle parti di sé. La loro vita può essere guardata a fette, ma per chi la vive è una.
E' difficile realizzare tutto, ovviamente, ma le donne sembrano particolarmente attrezzate per questo. Perché queste concrete esperienze costituiscono un bell'esempio di ciò che si definisce con il termine sistema complesso.
Un sistema può essere inteso come un tutto costituito dalla somma delle parti, come meccanismo fatto di ingranaggi ognuno con un ruolo preciso. Come territorio: se si è in un luogo, non si può essere in un altro. Come tempo segmentato in istanti, ognuno destinato ad essere 'riempito di attività'. Oppure -ed è questo lo sguardo della 'scienza della complessità'-, il sistema può essere inteso come insieme sinergico, vivente, in continua evoluzione adattandosi al contesto. Il comportamento più conveniente sta nella lettura della situazione. la soluzione al problema emerge nel momento in cui serve. Si può essere allo stesso tempo -con il pensiero e con l'azione (le tecnologie aiutano)- in luoghi diversi. Si possono fare allo stesso tempo più cose. La gestione del tempo non consiste nel riempire di attività ogni istante, ma nel cogliere il momento propizio per ogni diversa attività. Ogni soluzione non può che essere subottimale.
Non è facile trovare soluzioni di fronte all'esigenza di 'tenere insieme' tutta la propria vita, muovendosi dentro i vincoli aziendali e quelli familiari, e anche restando se stesse. Ma queste donne considerano normali, e adottano spontaneamente, quei comportamenti che gli studiosi della complessità considerano i più efficaci.
Chi dunque può essere più adatto a gestire situazioni complesse, come quelle rese ancora più complesse dalla crisi?
Ma c'è dell'altro.
Affettività e relazioni
Le donne nel lavoro portano con sé anche l'affettività, che non reprimono, ma ritengono un elemento importante nel loro modo di lavorare con altre persone. Affettività in questo caso significa soprattutto l'attenzione alle relazioni, alle persone. Il buon clima di lavoro è per loro elemento essenziale di un buon lavoro.
“Quello che mi gratifica di più è il raggiungimento di un buon clima di relazioni e il fatto che tutto 'fili liscio'”. “Un clima che renda facile chiedere aiuto e premi”. “Credo molto nei rapporti tra le persone nel gruppo, il valore del gruppo è fuori discussione. Ma l’affettività deve esser gestita, le decisioni non possono essere influenzate dall’affettività. Per me è un problema. Se devo prendere delle decisioni impopolari, cerco di mediare, di risolvere questo dilemma con la chiarezza, spiegando alla persona le motivazioni che mi hanno portato ad una scelta. Non ho altre risorse”. “Per me ciò che conta maggiormente è l’ armonia. Penso che questo serva a far lavorare meglio un gruppo e che la redditività di un’azienda aumenti se i suoi dipendenti sono in armonia. Credo che il lavoro rubi molto del tempo di un individuo, allora è necessario che ciascuno trovi in azienda il clima migliore per potersi esprimere secondo le proprie attitudini coerentemente con le regole dell’organizzazione”. “Un lavoro di squadra, persone intelligenti insieme che proprio perché insieme potenziano le loro possibilità”. “Spendere il minor tempo possibile a difendermi dall’ambiente circostante: nessuno paga tutti gli sforzi che si fanno per difendere se stessi dai colleghi, dai capi, dagli altri responsabili”.

Il fatto che l'affettività sia una presenza importante non vuol dire che le donne se ne lascino invadere in maniera incontrollata, che si lascino prendere la mano da 'buonismo' o da sentimentalismi, che non siano attente a gestirla e a sorvegliarne gli effetti.
Non vuol dire che non si abbia lucidità sugli obiettivi del lavoro, sulle scelte che questi richiedono. Ma, anche quando dure e problematiche, si cerca comunque un modo per spiegare, perché si possa capire, sapere, non solo subire ed essere messi così in condizioni ancora più dolorose delle decisioni in sé, magari inevitabili. E' già molto se pensiamo che per molti degli uomini al comando, per non dire la maggioranza, vale l'idea che le aziende si governano con la paura, con la spietatezza, e non danno la minima rilevanza agli effetti sulle persone. Quante situazioni così abbiamo visto in questi mesi, in questi anni? Dove alla falcidie reale di lavoro si aggiunge la sofferenza di un certo modo di essere trattati dall'azienda. Perché c'è modo e modo di gestire anche le situazioni più dure. Ma forse, più precisamente, più che dell'azienda dovremmo parlare qui dei suoi top manager, che sembrano prendere decisioni e usare metodi prima di tutto funzionali a rafforzare la propria posizione, i propri guadagni a qualunque costo. A volte, in questo modo, non facendo realmente gli interessi l'azienda: perché demotivano e spaventano quelli che sopravvivono alle falcidie, invece di stimolarli e coinvolgerli. Ma dovremmo qui aprire un capitolo a parte.
Le donne manager, in grande prevalenza, attribuiscono invece importanza alla ricerca di rapporti collaborativi tra persone che lavorano insieme. E qui c'è un'intelligenza in più, perché questo non solo fa stare meglio le persone, ma è funzionale a raggiungere migliori risultati nel lavoro: senza buone relazioni non si ottengono risultati. Un cattivo clima di lavoro è antieconomico.
Questa considerazione diventa importantissima oggi. Le pesanti difficoltà di mercato che stiamo vivendo creano di per sé tensione, pressioni, sbandamento all'interno delle aziende. Così, spesso, si lavora in condizioni veramente dure, segnate da un clima conflittuale, da gestioni ciniche. In questo contesto si spendono le energie per difendersi, nel tentativo di sopravvivere a relazioni difficili. Sono energie non ripagate da nulla. Un ambiente dove il tasso di conflittualità è più ridotto è già di per sé premiante: per le persone e per l'azienda.
Soprattutto per le donne, che sul 'buon' lavoro investono molto di sé.
Erotismo ed etica del lavoro
Vediamo un esempio. Una donna racconta del suo impegno straordinario profuso per contribuire a risolvere una crisi aziendale, stimolata dalla manifestazione di stima del suo capo e ricompensata dal suo apprezzamento.

“Quando lavoravo nell'azienda precedente, ci fu un momento di crisi molto seria. Fui convocata dal mio capo, mi disse che contava molto su di me, perché ero tra gli elementi migliori. Io uscii tutta orgogliosa di questo atto di stima e di fiducia, e mi impegnai in modo straordinario per diversi mesi. Quando si videro i primi segnali positivi, mi espresse tutta la sua soddisfazione per il mio lavoro: ero stata bravissima. E io usci dalla sua stanza felice. Non ebbi altro”.
Ecco: l'interesse dell'azienda prima di tutto. Normale? Ad un uomo non sarebbe mai successo. Un uomo avrebbe contrattato prima e preteso dopo. Certo, si potrebbe liquidare l'episodio facilmente: la solita incapacità di chiedere delle donne. Eppure, dentro questo episodio si possono leggere anche cose ben diverse, e su cui riflettere, soprattutto in tempi di crisi gravissima.

“Per me è molto importante sentire che sto realizzando qualcosa” “Non ho mai badato ai soldi. La passione, la possibilità di misurarmi con cose nuove, di creare, la stima delle persone intorno, i risultati concreti mi erano sufficienti” “E’ importante per tutti trovare un 'senso' nel proprio lavoro per sentirsi in una piacevole situazione di espansione di sé invece che in una dolorosa circostanza inevitabile” “Sentire che col mio lavoro cresce l’azienda e crescono le persone” “Un lavoro in cui sento la mia responsabilità verso l’azienda” “Il lavoro è l’ambito sociale in cui esprimerci maggiormente e contribuire al bene comune” “Mi sono appassionata al lavoro e mi ci sono buttata anima e corpo”. “Sono presa da innamoramento e passione per le cose che faccio”. “E' stato amore a prima vista ed ho capito che avrei continuato quel lavoro”. “Può esserci un innamoramento metaforico per il proprio lavoro. Io amo il mio lavoro”.

Bisogna partire dalla base: la scelta di fare un lavoro qualificato e impegnativo non è un obbligo sociale per una donna. Certo, nella maggioranza dei casi lavorare si deve, ma cercare un percorso professionale di alto profilo nasce da una motivazione personale. Per un uomo, invece, il modello sociale si fonda imprescindibilmente sul lavoro, sul successo. Si potrebbe dire che mentre un uomo deve, una donna sceglie di fare carriera. Dunque diversa è la sua aspettativa verso il lavoro.
Il lavoro a cui queste donne ambiscono comporta benefici che vanno ben oltre il guadagno economico. Ciò che vogliono riguarda soprattutto le possibilità di autorealizzazione. Il lavoro assume un valore intrinseco, un ruolo orientato alla costruzione di sé, della propria identità.
Il lavoro così inteso esprime valori più ampi e diversi da quelli dominanti -concentrati su soldi e carriera- e include una dimensione etica individuale sorprendente frequente.
Forse entrano in gioco anche dinamiche legate a consuetudini di ruolo. Come il prendersi cura della famiglia: un lavoro gratuito che viene ripagato dalle relazioni affettive. Come se amore e soldi facessero 100, e dunque dove c'è tanto amore ci possono essere pochi soldi. Lo stesso meccanismo si attiva con il proprio lavoro: dove c'è soddisfazione per il lavoro, ci può essere una remunerazione economica insoddisfacente.
In tutto questo c'è qualcosa di molto importante per le aziende (che non è approfittarne per non remunerare ciò che è giusto: le donne hanno dei valori, non sono sciocche). Fare del proprio lavoro uno strumento di realizzazione di sé, amarlo molto, significa che nel rapporto di queste donne con il lavoro c'è sempre una presenza di eros. Stiamo parlando di eros come forza vitale e creativa, passione, piacere. Questo porta ad uno specifico femminile negli atteggiamenti verso l'azienda. Dove c'è eros c'è gratuità, c'è dono. E questo modo di essere verso il lavoro coinvolge anche l'azienda, con cui le donne stabiliscono una relazionalità basata su una forte lealtà.
Vengono in mente episodi della cronaca recente, con le gravi crisi finanziarie di grandi società. Al cui vertice abbiamo visto top manager arricchitisi non solo con retribuzioni smodate a fronte di danni smodati, ma a volte anche truffando. Eppure non abbiamo mai sentito che tra di loro ci fossero delle donne. Certo, sono poche in posizioni di grande potere, ma intanto quelle poche non sono così. E ci sono invece molte donne con meno visibilità ma in posizioni chiave, quelle che fanno veramente funzionare l'azienda. Lì ne troviamo molte. E sono preziose proprio per l'attenzione agli interessi aziendali.
D'altra parte, senza nemmeno arrivare ai casi delinquenziali, chiunque conosca la vita aziendale sa che i manager investono una buona quota del loro tempo non a sviluppare il lavoro per l'azienda, ma a lavorare per la propria carriera e il proprio guadagno. Intessendo relazioni, pensando a cosa ci guadagnano da ogni decisione possibile. Le donne pensano a lavorare, a svolgere il compito, a realizzare l'obiettivo. Di fronte ad un problema, un uomo pensa a chi delegarlo e a come può trarne vantaggio, una donna dice 'ci penso io', e si impegna duramente per risolverlo.

A questo punto, ce n'è abbastanza per dire ai vertici aziendali una cosa tanto più valida in tempi di crisi. Se dovete scegliere una persona, assegnare un ruolo di responsabilità, affidare un progetto, a parità di condizioni puntate su una donna. Potete fidarvi delle donne. Potete fidarvi di più.
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E' necessario fare una premessa, anche se ovvia. Non tutte le donne manager sono uguali. Nel valorizzare qui alcuni aspetti distintivi e positivi nel loro stile di leadership, non dimentico certo che non tutte le donne sono uguali, così comegli uomini. Ma parlando di donne e uomini, faccio riferimento ad atteggiamenti prevalenti nella cultura aziendale dominante. Le testimonianza che accompagnano questo articolo sono tratte dai racconti personali di donne manager, su cui si fonda il mio libro Donne senza guscio, Percorsi femminili in azienda.

Da Persone & Conoscenze, 2009